Quando la Rufina parla la dolce lingua dell’olio extravergine5 min read

Il nostro assaggio di Rufina del dicembre scorso è andato oltre il vino: abbiamo provato anche tredici extravergini, addirittura più dei Vin Santi. La cosa può sembrare scontata per chi frequenta la Toscana: qui il connubio vite-olivo è fortissimo. E’ raro trovare aziende agricole che oltre ai vigneti non gestiscano pure oliveti, in particolare nella parte interna della regione. Certo il profitto che i due prodotti possono dare è assai diverso, a sfavore dell’olio per varie ragioni. Ma è difficile immaginare che il relativo paesaggio venga stravolto per questo, anche perché è un gran bel paesaggio.

Ecco i risultati della nostra esplorazione: sui tredici campioni forniti dai produttori di Chianti Rufina uno solo ci ha un po’ deluso, tutti gli altri oscillano su valutazioni medio-alte: una conferma, per quanto mi riguarda, delle impressioni ricevute durante qualche decennio di visite risalendo i fianchi della Sieve.

Il profilo medio di questi prodotti corrisponde alle aspettative più classiche, considerando zona e varietà: a dicembre molti oli si presentavano di colore verde o a tendenza verde, con aromi dominanti di mandorla fresca e carciofo e piacevoli variazioni verso altra frutta a guscio e altre verdure. Abbiamo riscontrato le immancabili buone dosi di amaro e/o piccante, complessivamente ben integrate nella pasta. Tutto questo, va detto, per un’annata che non verrà ricordata, almeno da queste parti, per la forza gustativa. La produzione 2018 è risultata alta per quantità, qui come a livello regionale, in controtendenza rispetto alla media nazionale. Tuttavia sia il corpo degli extravergini sia la loro intensità aromatica si sono rivelati più leggeri del solito.

Siamo nella Toscana più interna, nord-orientale, dove la valle della Sieve risale verso l’Appennino vero e proprio. Sempre “Chianti”, è vero, ma di tipo particolare. E’ qui che si è affermata storicamente la raccolta precoce delle olive, per la quale sono state date diverse spiegazioni, pedo-climatiche (evitare le gelate) come economico-sociali (i ritmi della mezzadria): fatto sta che questa pratica ha finito per convincere il mondo intero, e oggi ovunque ci si prefigga la qualità si guarda all’invaiatura, o poco oltre, come al momento migliore per raccogliere.

Non è un caso che la Val di Sieve sia stata la culla del Laudemio. Questo marchio condiviso è nato prima di qualsiasi DOP olearia, ed è dotato di un disciplinare sottoscritto volontariamente. Fin dall’inizio è stata prevista la raccolta precoce come un prerequisito indispensabile per ottenere qualità, insieme alla raccolta delle olive per distacco diretto. Anche se puntare all’eccellenza non vuol dire raggiungerla sempre e comunque, il marchio lanciato da Frescobaldi e pochi altri esattamente trent’anni fa sta a dimostrare tutta la vocazione di Rufina e dintorni.

Oggi le aziende aderenti sono ventuno, in un’area appena più allargata; e fra i produttori di Rufina che ci hanno mandato i campioni ben cinque imbottigliano Laudemio. In questa occasione hanno fatto arrivare i non-Laudemio, per così dire, il che ce ne ha fatto particolarmente apprezzare il risultato.

Una peculiarità del marchio sta nel packaging. Da Frescobaldi è arrivata l’edizione celebrativa del trentennale, in veste oro. Ma la norma è che le bottiglie, di sezione ottagonale, sono trasparenti.

Si evidenzia così la bellezza del colore e la brillantezza dell’olio. Del resto avete mai visto un Sauternes in bottiglia scura? Si mangia e si beve anche cogli occhi! La filtrazione spinta è stata una scelta caratterizzante fin dall’inizio, in un contesto dove molti consumatori cercavano – e forse cercano – l’olio velato come garanzia di genuinità. Già, direte voi, ma l’effetto deleterio della luce? La soluzione è semplice, le bottiglie di Laudemio sono vendute sempre dentro il cartone, anche se tutto questo ha un costo.

Va sottolineato che molti produttori di Rufina frangono proprio a Camperiti, l’impianto a ciclo continuo di proprietà Frescobaldi che lavora innanzi tutto le olive di Nipozzano. Altri ne gestiscono uno proprio, come Grignano e il Castello del Trebbio; quest’ultimo in stagione coinvolge pure i suoi visitatori nella raccolta delle olive. I Marchesi Gondi della Tenuta di Bossi, invece, possiedono un oliveto consistente anche nella tenuta di Volmiano, distaccata verso occidente ma dotata di impianto proprio. Hanno “esportato” la sapienza di Rufina, anche se il confezionamento è separato.

Molti oliveti giacciono in ambiente semi-montano in un paesaggio di grande fascino: circondati da boschi quelli di Frascole, della fattoria Il Lago, di Grignano, di Colognole e de Il Pozzo. Spettacolare la posizione di Lavacchio, con uliveti a sella sui due versanti del crinale.

Si fa notare per qualità emergente, a quote più basse, il comune di Pontassieve e in particolare la bella frazione di San Martino a Quona, da tener presente anche per il vino (aziende I Veroni e Il Capitano). Verso oriente la strada che entra nel comune di Pelago ci fa viaggiare tra gli oliveti di Travignoli. Tutto questo patrimonio estetico sembra al momento in via di passaggio generazionale. Con i giovani arriveranno magari i monocultivar, anche se l’assaggio degli ottimi “pluricultivar” tradizionali non ce ne fa sentire l’urgenza.

Completo il panorama con qualche indirizzo sicuro per una sosta: la macelleria Zagli nel centro di Rufina, in particolare per il bardiccio; il ristorante Toscani da sempre a Pontassieve gestito da Stefano Frassineti che conosce Rufina come le sue tasche; e la Bottega di Rosano, un bar-trattoria-negozio che è un faro sul territorio, Mugello compreso.

L’incontro con i produttori aderenti al consorzio è stata anche l’occasione per seguire più da vicino il lavoro di un olivicoltore, se questi confeziona l’olio di persona. A Selvapiana abbiamo infatti avuto l’occasione di assaggiare campioni delle diverse partite che hanno poi concorso al prodotto finale dell’azienda. In pratica quello che il produttore stesso ha raccolto nel passare dei giorni, e che gli è servito anche da monitoraggio. Le partite erano diverse per origine (da quattro appezzamenti per circa novemila piante) e soprattutto per data di raccolta; non tanto per le cultivar. Il frantoio è lo stesso.

Ebbene le diversità di gusto si sono rivelate notevoli, per timbro aromatico e impatto polifenolico: diversità lontane da quello che si riscontra nelle partite di vino in situazione analoga. L’annata, stando agli assaggi messi a disposizione, sembra aver prodotto un picco di qualità a ottobre inoltrato e non all’inizio della raccolta, cosa che poi ho riscontrato e continuo a riscontrare parlando con gli olivicoltori della Toscana interna quando mi raccontano la loro campagna 2018.

Bravo quindi il nostro ospitante Federico Giuntini a comporre quel blend finale di alta qualità che abbiamo assaggiato insieme ai campioni delle altre aziende. Le quali, per raggiungere il livello testato, avranno fatto un lavoro simile. Se avete confidenza con qualche olivicoltore vi invito a fare questo tipo di assaggio l’autunno prossimo: salteranno fuori molte cose interessanti e potrete capire meglio cosa c’è dietro un’etichetta e un prezzo. 

Alessandro Bosticco

Sono decenni che sbevazza impersonando il ruolo del sommelier, della guida enogastronomica, del giornalista e più recentemente del docente di degustazione. Quest’ultimo mestiere gli ha permesso di allargare il gioco agli alimenti e bevande più disparati: ne approfitta per assaggiare di tutto con ingordigia di fronte ad allievi perplessi, e intanto viene chiamato “professore” in ambienti universitari senza avere nemmeno una laurea. Millantando una particolare conoscenza degli extravergini è consulente della Nasa alla ricerca della formula ideale per l’emulsione vino-olio in assenza di gravità.


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