Borgogna: ovvero la tana dell’aligoteur5 min read

L’aligoteur

A vederlo, con la zazzera e la barba rossicce, gli occhialini e in pantaloni corti, Sylvain Pataille sembra un archeologo davanti ai suoi scavi. E per la verità un po’ archeologo lo è davvero, impegnato com’è nella riscoperta e rivalorizzazione dell’aligoté, una delle tante varietà di uva sconfitte da quelle dominanti, che lo ha indotto a fondare , insieme con altri vignerons di tutta la Borgogna, l’associazione degli Aligoteurs.

L’aligoté, come il césar e il tressot in Borgogna, il castets e il mancin a Bordeaux, e molte altre in tutta la Francia, fa parte di quei  “cépages modestes” o “oubliés”, verso i quali in questi ultimi anni sta aumentando l’interesse  spinto dai cambiamenti climatici e dalla ricerca di una maggiore diversità gustativa locale, meno omologata di quella delle uve mondializzate .

L’aligoté per la verità non è sempre stato “modesto”, visto che agli inizi del ‘900 gli ampelografi Viala e Vermore scrivevano che “dà risultati superiori a quelli di ogni altra varietà sui suoli magri, pietrosi, calcarei sui quali è coltivato da tempo in Borgogna eccellenti specie nelle annate calde e secche”. E in fondo neppure oublié, perché anche se molte vigne di aligoté sopravvissute alla fillossera sono state espiantate per far posto al più nobile chardonnay, non è mai stato dimenticato davvero dai vignerons borgognoni. Non per nulla di aligoté ce n’è ancora e non poco in tutta la Borgogna.

Nel 2018 erano 1.577 gli ettari di aligoté distribuiti in 54 comuni diversi della Yonne, 91 della Côte d’Or e 154 del Dipartimento di Saône-et-Loire destinati alla produzione di Bourgogne Aligoté. Pataille ricorda con nostalgia che il bisnonno, quando negli anni ’30, molti vignerons furono costretti a liberarsi delle vigne perché mantenerle era diventato troppo costoso, aveva mantenuto due are di gamay e di aligoté per fare da sé il vino per la sua famiglia. Diversamente da molte altre famiglie borgognone, quella di Sylvain non era- almeno in senso stretto- una famiglia di vignerons, anche se quell’ambiente non gli era certamente estraneo. Il padre era grande amico di Jean Fournier, col quale trascorrevano parecchio tempo nelle sue vigne.

Sylvain Pataille da ragazzo

Nessuna sorpresa perciò che a 14 anni decidesse di frequentare l’école viticole di Beaune, per poi completare la sua formazione all’Università di Bordeaux. Enologo senza terra, il suo progetto iniziale era quello di viaggiare molto per fare esperienza di vendemmie nelle diverse parti del globo, ma fu preso in contropiede dall’offerta inaspettata di lavorare nel più importante Laboratorio enologico di Beaune, dove restò quattro anni, dal 1997 al 2001, divenendo presto apprezzato consulente di importanti aziende vinicole. In quella   posizione, però, la sua opera cominciava con le vinificazioni e terminava con l’élevage, restando estranea alla vigna, che era ciò che più lo affascinava. Così nel 1999 decise di fare la sua prima esperienza di vigneron sia pure solo con 1 ha. di terra, ponendo le basi del suo Domaine.

La tana dell’aligoteur

La tana dell’aligoteur è a Marsannay-la Côte, la più settentrionale delle AOC della Côte-de-Nuits, recentemente premiata dal  riconoscimento dei suoi Premiers Crus. Pataille è profondamente innamorato di Marsannay e del suo terroir. Di lui si dice che se il suo Domaine si fosse trovato in un comune più prestigioso della Côte d’Or, come la vicina Gevrey-Chambertin, e   avesse posseduto qualche parcella in un grand cru sarebbe una delle star assolute della vitivinicoltura borgognona. Eppure lui è profondamente convinto delle potenzialità di quel terroir, comprendendovi naturalmente anche Chenôve e il suo Clos du Chapitre, che considera il miglior cru del Dijonnois, superiore (“più elegante, più fine, più tutto”) anche al celebrato Clos du Roy. E di fatti il pinot noir del suo Clos du Chapitre  è formidabile.

Aligote doré

E’ inoltre letteralmente affascinato dall’aligoté, non solo perché ritiene che rappresenti un momento essenziale per ritrovare le proprie radici, ma perché si tratta di una varietà che, opportunamente selezionata e coltivata nei siti più appropriati, può dare ben più dei semplici vinelli a poco prezzo da godere entro 1-2 anni dalla vendemmia che si possono trovare in qualsiasi cantina borgognona. Non solo, diversamente da quanto si crede, l’aligoté può essere invecchiato altrettanto a lungo dello chardonnay, ma, più neutro, è un’autentica “éponge à terroir”, ha una capacità superiore a quella dello chardonnay di assorbire tutte le peculiarità e le sfumature del suolo su cui cresce. E difatti Pataille non si limita, come molti altri produttori, a fare il suo aligoté di casa, ma ne produce ben 5, quattro dei quali da selezioni parcellari. Di più, non soltanto da parcelle situate nei lieux-dits  minori di Marsannay, nei quali è possibile conservare la denominazione comunale solo per la  versione rosé, dovendo altrimenti ripiegare sulla più anonima dizione di Bourgogne Pinot noir o Chardonnay, ma anche  in alcuni di quelli più prestigiosi, appena “promossi” premier cru: intendo il Clos du Roy e La Charme aux Pretres . Non c’è che dire: ci vuole del coraggio a produrre Bourgogne Aligoté parcellari dove sarebbe possibile produrre Marsannay  Premier Cru.

Il loro assaggio è illuminante per comprendere davvero la diversità e le potenzialità di questo vitigno. Ma prima di tutto assaggiamo il suo aligoté di assemblaggio dell’annata 2019.

Bourgogne aligoté Domaine Sylvain Pataille 2019

Da uve aligoté doré dei lieux-dits  Champ Forey (60%) e Auvonnes  40%),  un mix di due suoli differenti: calcareo e ciottoloso il primo, argilloso-marnoso con piccole pietre in superficie il secondo, da vigne di età media di 50 anni.

Giallo paglierino, ha naso agrumato, nel quale affiorano reminescenze di ananas, limone candito e zenzero, sul palato è piacevolmente fresco, con una sottile vena speziata, una mineralità spiccatamente salina, insospettabile profondità e persistenza in bocca. E’ stato partner felice di un Pallone di Gravina di media stagionatura.

segue… Venerdì 2 aprile la seconda parte

 

Guglielmo Bellelli

Nella mia prima vita (fino a pochi anni fa) sono stato professore universitario di Psicologia. Va da sé: il vino mi è sempre piaciuto, e i viaggi fatti per motivi di studio e lavoro mi hanno messo in contatto anche con mondi enologici diversi. Ora, nella mia seconda vita (mi augurerei altrettanto lunga) scrivo di vino per condividere le mie esperienze con chi ha la mia stessa passione. Confesso che il piacere sensoriale (pur grande) che provo bevendo una grande bottiglia è enormemente amplificato dalla conoscenza della storia (magari anche una leggenda) che ne spiega le origini.


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