Si fa presto a dire mito. Ma mito non vuol dire niente. I borgognoni sono gente concreta, che sa che cos’è la materia prima ancora dello spirito; che conosce il lavoro, sopra ogni altra cosa. E dei miti forse se ne fregano.
Piuttosto, la Borgogna è la regione degli Uomini e delle Donne, di una generazione formidabile che nell’ultimo quarto di secolo ha rimesso tutto in ordine, i valori del tempo, della memoria, della tradizione, del territorio e della disciplina, con risultati vincenti.
Hai voglia tu a elogiare le virtù di una sensazionale parcella vitata, i suoi retroscena secolari, il suo pedigree celestiale, se poi non c’è chi quel potenziale sappia valorizzarlo anno dopo anno, raccolta dopo raccolta, vinificazione dopo vinificazione, bottiglia dopo bottiglia.
Ecco, oggi più che mai era necessaria un’opera nella nostra lingua che mettesse quei vignaioli al centro dell’universo; che della regione portasse in superficie soprattutto i fermenti umani. È questo il merito più grande di Vini e Terre di Borgogna (Artevino Studio, 35 euro), che non è una riedizione del 2012 ma proprio un altro libro.
Un libro palesemente riuscito*. Più di cinquecento pagine che si annusano e si sfogliano con gioia, che si leggono col sorriso, che si consumano in un sospiro, che mettono le ali al lettore, anche grazie all’impeccabile progetto grafico di Antonella Frate.
La Borgogna è decine di secoli di vitivinicoltura in un Corridoio. Quello che sul limitare del Maconnais, a sud, conduce fino a Chablis, a nord. È il corridoio della Storia che ha destinato le uve chardonnay e pinot noir alle vicissitudini dei monaci e delle abbazie, della geologia e dell’esposizione, dell’altitudine e del millesimo, della botanica e dell’umanesimo, e a quelle di un vino che da sempre si alimenta di minuscoli dettagli e di continue eccezioni.
Vini e Terre di Borgogna, nato dopo una gestazione di due anni, ti porta sopra quel bendidìo come una mongolfiera di carta, con il combustibile di recensioni, riflessioni e immagini, sorvolando i distretti più celebri e le zone di minore reputazione.
Il merito è di Giampaolo Gravina, scrittore dotatissimo e rigoroso, giocoliere della parola e trequartista dell’assaggio, oggi nel pieno della sua maturità interpretativa.
E di Camillo Favaro, qui anche nelle vesti di editore, uomo in verità toccato dalla fortuna di saper fare tutto, il regista e il mediano, forse anche il portiere all’occorrenza. Con in più il dono del coraggio.
E di Maurizio Gjivovich, che ha l’occhio magico del purosangue della fotografia, uno che col suo cognome e col suo talento non avrebbe sfigurato nella formazione della Jugoslavia degli anni Cinquanta.
Insieme, da amici prima di tutto, hanno fatto tanti gol e stravinto una partita complicata. Perché la Borgogna è un argomento scivoloso per tanti, come tutte le cose che hanno a che fare col mistero, in qualche modo.
Leggendo Vini e Terre di Borgogna, si capisce bene che una delle questioni di cui deve occuparsi la saggistica sono i confini. Un buon saggio definisce gli spazi, individua i margini e ci costruisce sopra una prospettiva critica: è ciò che accade in questo bellissimo libro-guida scritto aggregando resoconto e racconto, punti di vista già noti e idee originali. E una sezione fotografica da applausi.
Visto che non di sola Côte d’Or si alimenta la Borgogna, da bevitore e da viaggiatore militante ho molto apprezzato le approfondite ricognizioni nei luoghi periferici del vino regionale: le Hautes Côtes (con dodici produttori presi in rassegna), il Mâconnais (quindici i Domaine recensiti) e la Côte Chalonnaise (attraverso diciassette cantine insediate tra Bouzeron e il distretto di Montagny).
Forse non è vero, anzi non lo è affatto, che tutto è già stato detto e assaggiato, da quelle parti.
*Diomama se è bello!
[Si direbbe così, con gli occhi che sorridono, dalle parti di San Martino in Rio]
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