Perché lo Champagne un senso non ce l’ha (ed è tutto un equilibrio oltre la follia)11 min read

<<Il quattro dicembre settantuno, in un lontano inverno padano di pallidi soli e di grigi anni di piombo, c’era un villaggio comunista dal nome santo, con una bella rocca estense e l’immancabile cantina sociale. Fu un sabato avvolto in atmosfere care al Guareschi: l’odore delle stalle e dei lambruschi, l’eco di campane prossime al Natale e le discussioni ruvide di cacciatori su questioni di sasselli, bottacci e cesene. Qui arrivò una piccola creatura di mirabile bellezza, che oggi ha occhi enormi e neri come blocchi di basalto e un sorriso che dirada la nebbia>>.

 

Basta la parola: “Champagne”. E ci si dà un tono. Qualcuno vede le stelle e qualcun altro si fa prendere la mano. Come chi ha scritto che lo Champagne è un “lubrificante sociale”. Per tacere di quell’altro che lo battezzò “liquido psicotropo”. E altre stravaganze che fanno sorridere.

Del resto il terreno minato dell’enfasi, con lo Champagne, è sempre ben alimentato. Un paio di calici e ti entusiasmi citando Vasco perfino nel titolo del tuo pezzo, scomodi l’aneddotica più creativa e punti dritto alle iperboli, ai pensieri arditi, agli aforismi acuti.

Per Francis Scott Fitzgerald lo Champagne era una sanatoria etica: “Eccedere con tutto è sbagliato, eccedere con lo Champagne è semplicemente giusto”. Per la belga Amélie Nothomb è un ascensore sociale: “C’è un istante, tra il quindicesimo e il sedicesimo sorso di champagne, in cui ogni uomo è un aristocratico”. Secondo Bette Davis sarà un’apocalittica consolazione: “Prima o poi arriverà nella vita di ogni donna un momento in cui l’unica cosa che può essere d’aiuto è una coppa di champagne”. E il gigante Orson Welles ne fa una questione di temperatura – anche emotiva –: “Ci sono tre cose intollerabili nella vita – il caffè freddo, lo champagne tiepido e le donne troppo eccitate”.  E ce ne sarebbero ancora. E poi ancora.

 Si legge invece più raramente o meno di quanto forse occorra, che lo Champagne è un vino diverso da tutti gli altri, a cui vanno perciò dedicate attenzioni particolari e considerazioni specifiche per berlo al meglio, per goderselo appieno.

 Se fossi costretto a scegliere un solo vino capace di rimandare immediatamente al suo luogo d’origine, alla sua storia, ai suoi elementi anagrafici e produttivi, punterei su un grande Champagne. La sua capacità evocativa è davvero formidabile, ma in degustazione esige impegno.

Facendo un passo indietro va ricordato che degustare non è pratica che preveda solo una valutazione meccanica del liquido odoroso. Degustare non significa neppure collezionare informazioni. Men che meno squadernare riconoscimenti e analogie. Più semplicemente, degustare significa conoscere. Come si fa tra esseri umani: senza foga, senza arroganza, con pazienza.

La difficoltà ulteriore è che non si può conoscere con l’identico atteggiamento, con la stessa predisposizione, che so, uno Chardonnay di Sonoma e uno Chenin della Turenna, il Saperavi della Georgia e il Cabernet Sauvignon di Coonowarra, il Fendant del Vallese e l’Assyrtiko di Santorini, per dire. No, non è così. Bisogna invece sintonizzarsi sulle frequenze specifiche di ciascuno, accettarne le differenze, prevederne le mosse, adattarsi.

Ogni denominazione d’origine è figlia della sua geografia – fondamentale nella sua creazione – e di un tessuto sociale che è decisivo nella sua evoluzione. Il vino è sempre il risultato di un dialogo ravvicinato, continuo, dinamico tra natura e storia, tra l’ambiente e le tradizioni di quel luogo. E in modo ancora più specifico tra le potenzialità della vigna e il talento del vignaiolo, che è insieme custode, interprete e imprenditore (e talvolta giocatore d’azzardo, visionario, eroe).

Un vino di accertata provenienza deve dunque la sua fisionomia a una serie pressoché infinita di elementi specifici (di tipo antropologico, geologico, pedologico, climatico, ampelografico, viticolo, enologico, tecnologico e così via) che giustificano le differenze (spesso enormi) tra una denominazione e l’altra, tra una tipologia e l’altra, tra una bottiglia e l’altra, tra un’annata e l’altra: il degustatore è quindi un cacciatore di segni particolari, un detective del calice, un archivista del dettaglio. E il suo atteggiamento dovrà essere il più possibile aperto, elastico, evidentemente laico, mai dogmatico.

Lo Champagne a tal proposito è una palestra. Che ti allena a non dare mai nulla per scontato. Eterodosso per antonomasia – speciale, particolare, diverso appunto – lo Champagne è un vero e proprio ritratto dell’imprevedibilità. Vino bifronte, sospeso in un tempo e in uno spazio indefiniti, prigioniero (ribelle) di una tipologia che si nutre di troppe eccezioni per avere una regola. Semmai la regola è di accettare l’eccezione, rassegnandosi a un confronto aperto: caso per caso, produttore per produttore, flacone dopo flacone, cuvée dopo cuvée, millesimo dopo millesimo, sboccatura dopo sboccatura e così via.

Qui le minuzie contano eccome. Il comune o i comuni di provenienza delle uve. Le scelte agronomiche. Le indicazioni varietali (pinot noir, meunier, chardonnay e altre uve minori: da sole o in assemblaggio; in percentuali variabili di volta in volta). La vinificazione (con o senza lieviti selezionati; in bianco, in rosa, per coupage; legno sì legno no, legno parziale, di piccola o grande capacità; malo svolta integralmente, parzialmente oppure mai). La data del tiraggio (in media da febbraio a giugno, con tappo a corona o ben più raramente di sughero). I tempi di permanenza sulle fecce dopo la presa di spuma (di solito almeno tre anni per una cuvée di buon livello fino all’infinito o giù di lì). La scelta delle annate (millesimato, multivintage, solera e altre ipotesi intermedie). L’eventuale utilizzo di vini di riserva (con percentuali che variano di Champagne in Champagne e di anno in anno, in base a strategie interne a ogni Maison). La data del dégorgement (che ha una rilevanza significativa sull’espressione del vino). Le sboccatura tardive. I DT. Gli RD. Le Collection. Le Plenitude. E avanti così fino allo sfinimento.

A dispetto del suo severo metodo di elaborazione, lo Champagne può essere capace di slanci di personalità e originalità fuori dal comune. Più è buono e più lui prende le distanze dalla sua natura tecnologica, approdando a esiti di notevole varietà odorosa e gustativa; più è trasparente e più lascia intravedere elementi “radicali”, minerali, inusuali, spiazzanti; più è autentico e più tende a modificarsi senza soluzione di continuità, esibendo una profondità cangiante, autorevole, che ammalia l’amatore.

Nell’indagine di uno Champagne di alto livello nulla è come sembra. Così come la terra può apparire piatta, invece è una sfera; il sole pare roteare nel cielo, invece siamo noi a girare; lo scorrere del tempo essere considerato uniforme, invece funziona diversamente da un luogo all’altro del pianeta. Ecco, anche lo Champagne d’autore si camuffa e ti frega: materia sulla carta manipolata da molteplici tecniche realizzative, può sfoggiare nella realtà uno spirito selvaggio, spavaldo; vino dal sorso conviviale e disinvolto, dissimula sovente un magma di strati vibranti, di sapori incisivi; nome mediatico, trasversale, ricercatissimo possiede in verità una collezione di elementi peculiari – più o meno esibiti – nient’affatto popolari, né ammiccanti né consolatori.

Certo, non va taciuto che esistono anche tantissimi Champagne seriali che hanno poco da offrire a qualunque stadio e non meritano un briciolo delle nostre attenzioni. Ma quelli buoni, concepiti per un pubblico di appassionati ed elaborati senza sacrificare le radici del terroir, possiedono un meccanismo raffinato, sofisticato, complesso, inarrivabile per tutti gli spumanti “metodo classico” prodotti altrove e non così facile da eguagliare nemmeno da tanti celebri vini di altre regioni prestigiose (da Bordeaux alla Borgogna, per restare dentro i confini francesi).

Dei buoni Champagne va apprezzata la vitalità, la cui etimologia conduce alla vita. E per libera associazione di idee alla luce, alla primavera, a un’eterna giovinezza. In tal senso lo Champagne è un vino perennemente adolescenziale, anche nella maturità. È vitale grazie al temperamento dell’acidità, che a latitudini nordiche, nel severo clima champenois – dove il sole ha una forza limitata e le maturazioni arrivano in modo graduale – assume un ruolo nevralgico e triplice: strutturale, espressivo, conservativo. E traccia una significativa quanto incolmabile differenza tra uno Champagne e gli altri metodo classico del pianeta.

L’acidità, insieme al contributo del sale (elemento che la nobilita, la “qualifica”) e al supporto dell’anidride carbonica (che ne è il prezioso vettore: a patto che sia continua nell’effusione, ben integrata, minuta nella grana) dà vita a una proiezione gustativa oltremodo lucente, agrumata, saporita, brillante, attiva. Ed energica. Di un’energia che si trasforma addirittura in calore.

Il calore di uno Champagne non è dato infatti dall’alcol, che si attesta su valori bassi, bensì – ed è un paradosso – dalla poderosa forza dinamica dei suoi elementi più rigidi: gli acidi, i sali minerali e il diossido di carbonio. L’effetto turbina della sapidità e l’accelerazione dinamizzante (e propulsiva) delle bollicine regalano allo Champagne una proiezione così vibrante da creare una sensazione pseudocalorica (di “calore energetico”) ben superiore ad altri vini.

 Anche la capacità di cambiare pelle a contatto con l’aria è un tratto distintivo dei grandi Champagne, che non rimangono mai identici a se stessi dopo la stappatura. Personalmente adoro bere gli Champagne aperti da qualche ora, perché la loro tenuta all’aria è salda, consapevole, direi disinvolta per tante ragioni. Almeno quattro, direi. 1) La sua vinificazione non è mai in riduzione, anzi si forma con l’aria già in pressa e ha con essa una confidenza benefica. E anche durante le ulteriori fasi di elaborazione della tipologia (in particolare durante il tiraggio e la sboccatura) alcune dosi di ossigeno vengono inglobate nel tessuto del liquido. 2) Lo Champagne è dunque per natura un vino ossidativo più che riduttivo, minerale più che organico, condizione che favorisce una conservazione nel tempo di norma più solida. 3) Il pH di uno Champagne ha volari bassi che rappresentano una vera e propria difesa naturale contro il deperimento biologico del vino. 4) La presenza dell’anidride carbonica non è solo preziosa in termini estetici (il perlage) e organolettici (la pressione al palato, l’effetto aerosol dei profumi) ma è un’ulteriore barriera contro gli esiti più dannosi dell’aria.

Di conseguenza lo champagne ha bisogno di tempo per emergere: e quando il talento c’è, allora è bello godersi il suo comportamento cangiante. In fondo cosa fa paura a noi esseri umani? Non la fine della vita in sé, ma la fine di ogni probabilità che qualcosa nella nostra vita cambi. E lo Champagne scongiura questa ipotesi perché è vita (breve o lunga che sia) in continuo cambiamento, vivaddio. Un cambiamento tangibile, concreto, carismatico.

Nei grandi Champagne la tecnica c’è eccome,  ma è  mimetizzata, assorbita, incapsulata dentro un vino di personalità unica, in cui si raggiunge un equilibrio che va oltre la follia, come direbbe quel tale di Zocca. Un’armonia sulla carta complicata da raggiungere, piena di spigoli da riempire, di contrasti da placare, di manipolazioni da camuffare. Ed è qui che emerge il formidabile legame tra lo Champagne, i suoi protocolli di elaborazione e il suo territorio. Legame non replicabile altrove, benché la produzione di Metodo Classico sia diffusa ormai ovunque.

Vino di guardinga spensieratezza, di euforico contegno, di golosa tenacia, di ombre illuminanti, lo Champagne funziona perfettamente anche a tavola dove con una temperatura di servizio adeguata (sopra i 10 gradi centigradi) richiama il cibo con una spontaneità rara e salivante; in tal senso è il vino più adattabile a innumerevoli approdi della cucina di mare e di terra. Soprattutto quando è maturo al punto giusto, quando perde il ringhio giovanile, quando si permette al tempo di governare la sua l’arrembante intensità giovanile.

L’emancipazione dello Champagne si ottiene solo parzialmente durante la sosta (più o meno lunga) sur lattes; in quelle condizioni il vino è in una situazione che mi piace definire “di formazione”. La pancia della bottiglia e la placenta dei lieviti creano i presupposti per una crescita lenta, orizzontale, strutturale. Poi c’è lo stato per così dire radicale, aereo, espressivo, che si realizza dopo la sboccatura, quando lo Champagne comincia a respirare esclusivamente con i suoi polmoni. Solo allora il vino si mette in posizione eretta e inizia a battagliare con il mondo esterno, con le insidie dell’ossigeno e del tempo, costruendo il suo fiato.

Contestualmente comincia il suo dialogo con la liqueur d’expedition, provando a integrare un vino estraneo e l’eventuale dosaggio zuccherino. Ed è così che prende definitivamente la sua strada. Una strada spericolata, come la vita di Steve McQueen, che tanto piaceva al giovane Blasco: una strada eccitante e come detto pressoché impossibile da emulare in altri contesti enoviticoli.

Per troppi anni si è pensato che dopo il dégorgement uno Champagne fosse destinato a smarrirsi in fretta. In verità non è affatto così: la sua storia inizia sui lieviti e si completa quando li espelle. C’è un prima e c’è un dopo.

Il grande champagne può essere buonissimo tre mesi o trent’anni dopo la sua uscita sul mercato.  Ma è solo nella piena evoluzione, quando ormai se ne ipotizza il declino, che lui ti spiazza e ti emoziona, lanciandoti addosso brandelli di cose inusuali, di tartufi e conchiglie, di cieli immensi e di sottoboschi oscuri, di alghe spiaggiate e di dolcezze grasse ed esotiche. E di altre cose senza senso.

Perché forse lo Champagne, come la vita, un senso non ce l’ha.

 

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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