Enjoy Collio Experience: la necessità di girarsi indietro per andare avanti5 min read

Mi guardavo intorno e l’umanità che mi circondava era piuttosto diversa da quella che aveva visto il mio ingresso nel mondo del vino: si andava da più o meno giunoniche signore di colore a cinesine minute e attente, passando per varie età e sfumature di bianco, sia al maschile che al femminile, rappresentanti l’universo mondo. In un attimo mi sono sentito vecchio e superato, poi ho reagito e mi sono immerso nel clima “melting pot” di Enjoy Collio Experience 2019.

Melting pot a parte è sempre bellissimo tornare in Collio e ammirare il verde e i vigneti di colline dove l’occhio non si stanca mai, trovando sempre nuovi orizzonti.

Ma veniamo agli orizzonti enoici che la riuscitissima manifestazione, quest’anno più incentrata sulle visite in azienda ma comunque con due importanti focus (sul Collio DOC e sul Sauvignon) ben condotti da Richard Baudains, ci ha proposto.

Il Collio è oramai storicamente frammentato tra decine di vitigni (soprattutto bianchi) che portano da una parte ad un cospicuo numero di vini prodotti da ogni singolo produttore, dall’altra ad un’atavica e quasi logica necessità di unirne qualcuno in uvaggio.

L’uvaggio storico in Collio è composto dai tre vitigni autoctoni principali (friulano, malvasia e ribolla), in varie percentuali, ma nel tempo si sono aggiunte le altre uve (pinot bianco, chardonnay, sauvignon, riesling etc) alloctone, oramai adattate al clima e al territorio.

Occorre anche dire anche che certe uve si sono adattate meglio in determinate zone e  fattori più legati ai produttori che non al clima o al terreno hanno creato in certe enclave  particolarità praticamente irripetibili altrove.

Dico questo perché lo scorso hanno il tema che aleggiava nell’aria era quello della DOCG Collio (di cui parlavo qui) cioè di un vino-uvaggio di altissima qualità che rappresentasse il Collio e ne innalzasse la visibilità mondiale. Questo perché alla fine dei salmi quello che i produttori locali ricercano è una maggiore visibilità dei loro vini, che si traduca poi in un prezzo medio più alto per i loro prodotti.

Considerando che il Collio ha prezzi nella fascia alta del mercato italiano dei bianchi, la ricerca di un “SuperCollio” era ed è vista come un modo per smarcarsi dal gruppo delle molte altre denominazioni in bianco che nel frattempo si sono fatte avanti.

In poche parole si cercava e si cerca di guardare avanti per creare il vino del futuro. Nelle belle e intense giornate di Enjoy Collio Experience, che hanno avuto come ciliegina sulla torta una cena di gala da urlo al Castello di Spessa  preparata da Antonia Klugmann, mi sono piano piano fatto l’idea che in Collio per guardare avanti occorrerebbe guardare indietro.

Ora mi spiego: L’idea ha cominciato a  balenarmi in testa il primo giorno, quando un produttore alla fine degli assaggi ci ha proposto, quasi scusandosi,  un suo Pinot Bianco “base” del 2009. Un vino nato per essere venduto subito, fatto in acciaio, che non solo era perfetto ma aveva complessità e profondità che i  Collio DOC (cioè vini più importanti, passati in legno) degustati in precedenza nemmeno si sognavano.

L’idea ha continuato a formarsi  degustando in altre cantine vini “base” di altri vitigni e di annate che andavano indietro anche di 20 e più anni, per poi definirsi in uno dei momenti più interessanti della manifestazione; una degustazione dove i produttori potevano portare i vini recenti e un vino più vecchio.

Qui ho degustato vecchie annate di vini “base” da vitigni autoctoni o meno, passate o non passate in legno che mi hanno fatto capire in maniera chiara che il futuro del Collio passa dal passato, cioè dal valorizzare quello che è sempre stato considerata la base della piramide Collio, i vini monovitigno.

Se quindi la proposta del Collio DOCG non dovesse andare avanti, facendo finta di partecipare al gioco “Fai da solo la tua DOCG”, faccio una proposta.

Una proposta che può sembrare campata in aria ma che, per esempio, anche in Alto Adige stanno portando avanti, cercando di dare valore al binomio territorio-vitigno. Inoltre una cosa simile è stata approvata adesso per il Soave con le U.G.A e in Piemonte le “vecchie” M.G.A funzionano sul concetto base di un vitigno che in un certo territorio assume caratteristiche qualitative  particolari.

In poche parole: si individuano (se non si inizia a farsi la guerra dovrebbe essere facile…) una serie di territori dove un determinato vitigno da tempo dà risultati caratteristici, di alto profilo e migliori rispetto ad altre parti: si selezionano ancora, si scremano e alla fine potrebbe nascere una DOCG legata a certi vitigni (non in uvaggio)  piantati su determinati terreni.

Non voglio fare nomi di luoghi o comuni ma in Collio vi sono molti “lieu dit”, per dirla alla francese, dove il sauvignon, più che il friulano, la ribolla o il pinot bianco etc. nascono con caratteristiche particolari e possibilità di invecchiamento notevoli. Valorizzare questi “cru” (magari con menzioni comunali) vorrebbe dire valorizzare tutto il Collio e farebbe capire le reali potenzialità di invecchiamento di un “vitigno NEL Collio”, dando la possibilità a tanti produttori di vendere vini giovani che anche nella mente dell’acquirente possono invecchiare tranquillamente. Anche perché, scusate la franchezza, ma tanti vini da monovitigno messi in commercio nell’annata spesso sono troppo giovani e immaturi.

Così da una parte vi sono  tanti vini “base” che entrano in commercio dopo pochi mesi non pronti e non lo saranno prima almeno di un anno, dall’altra ci sono possibilità di invecchiamento comprovate: basta fare due più due.

Capisco, può non essere facile ma l’importante per me adesso è far capire ai produttori che non esiste una sola strada (quella dell’uvaggio, che ha comunque una sua logica) per creare in Collio un grande bianco da invecchiamento. Se non ci credono basta scendano nelle loro cantine, prendano vecchie annate di vini base e le  assaggino.

Insomma guardare indietro per guardare avanti non sarebbe sbagliato.

 

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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