Il Collio DOCG per un futuro “a misura di Collio”5 min read

Durante Enjoy Collio Experience una domanda aleggiava nell’aria.

Più che una domanda era un domandone, un dubbio semi amletico, un  quasi “rovello interiore” che dai produttori filtrava verso i giornalisti. In soldoni la domanda era: “Cosa pensate della possibilità di creare un vino (DOCG) che si chiami solo Collio e sia frutto (quasi sicuramente) dell’uvaggio tra i tre vitigni autoctoni più importanti in zona, cioè friulano, ribolla gialla e malvasia?”

Robert Princic mentra ascolta attentamente Richard Baudains a Collio Experience 2018.

Da tempo infatti quel vulcano silente che è Robert Princic, presidente del Consorzio Collio, assieme ai giovani consiglieri sta cercando di dare uno sbocco moderno e abbastanza definito all’idea che  Felluga lanciò all’inizio degli anni novanta, quella di un vino non solo col nome del territorio, quindi Collio, ma che lo rappresenti a 360°.

La cosa non è certo semplice  per tutta una serie di motivi che cercherò di presentare brevemente.

Prima di tutto l’oramai consolidata “conformazione vitivinicola” del Collio, dove una ventina di vitigni e altrettante (forse di più) tipologie di vini sconsigliano, almeno in teoria, l’inserimento dell’ennesima. Però il futuro Collio DOCG,  per come ci è stato ventilato dovrebbe ispirarsi alla Gran Selezione del Chianti Classico, nel senso di vino “punta di diamante” della produzione locale.

collio produzione

L’idea sarebbe di utilizzare (soltanto?) le uve autoctone del territorio, cioè  friulano, ribolla e malvasia e qui sorgono altri  problemi perché questi tre vitigni coprono assieme poco più del 25% del territorio e quindi come sarebbe possibile definire “tipico e storico” un uvaggio che rappresenta a malapena un terzo del territorio?

Inoltre ad Oslavia la ribolla viene benissimo ma forse il friulano si presenta al meglio in altre zone, tipo, Brazzano o Capriva. Quindi  il vino di punta di una denominazione nascerebbe  da una specie di “compromesso storico-enoico”, da un voler/dover  puntare solo  su alcuni vitigni che magari, proprio per caratteristiche del territorio e pedoclimatiche  non rappresentano  il meglio del meglio che l’azienda può dare. Per esempio: se la mia azienda produce un grande friulano ma una malvasia non eccezionale, perché per fare il Collio DOCG, cioè il mio meglio,  devo unire ad un grande vino un altro che, nella migliore delle ipotesi, non lo migliora?

In più, chi ha grandi vigneti e grandi uve non autoctone cosa fa? Non partecipa alla DOCG? Per questi motivi  l’idea di creare il Collio DOCG solo da tre uve autoctone mi sembra di difficile attuazione e soprattutto approvazione da parte dei produttori stessi.

L’altra possibilità, quella di utilizzare praticamente tutte le uve bianche già presenti in zona  permetterebbe a tutti di produrre il Collio DOCG, ma porterebbe ad una confusione incredibile, perché non creerebbe assolutamente un’idea identitaria di vino e in più andrebbe a sovrapporsi al Collio Bianco DOC, dove già si possono utilizzare le stesse  uve, creando una notevole confusione anche dal punto di vista commerciale.

A questo punto una proposta potrebbe servire solo a creare maggiore confusione, ma voglio provare a farla.

Partiamo dal presupposto che, oramai, il Collio è un insieme di uve e vini e come tale viene visto dal mercato. Allora perché rinnegare questa versatilità per puntare esclusivamente  su tre importantissimi vitigni, ma “minoritari”? In Chianti Classico la Gran Selezione nasce da  vigneti aziendali e  l’indicazione del 100% di sangiovese  è , appunto un’indicazione, e uno può farlo con il 20%  di merlot o cabernet.

Se il meglio del Chianti Classico può avere un 20% di merlot perché il meglio del Collio non può essere anche a  base sauvignon o chardonnay?

Se il nome COLLIO deve rappresentare il meglio di un territorio e in questo territorio ci sono vari vitigni, perché non lavorare in questo senso, proponendo una DOCG Collio che in etichetta,  subito sotto alla scritta della denominazione riporti i vitigni con cui è fatto quel Collio DOCG.

Non in retroetichetta, non nascosti in qualche modo, ma scritti in maniera chiara e leggibile  (ma più in piccolo) subito sotto la denominazione, in modo che tutti vedano che nel Collio DOCG (magari scritto con la stessa grafica su tutte le bottiglie)  ci possono essere diverse uve,  ma una stessa matrice territoriale. Naturalmente andrà ridimensionato (o tolto, o addirittura “sostituito”) il Collio Bianco.

Forse questa idea non è il massimo, ma può essere vista come contributo alla discussione. A questo proposito voglio mettere in guardia i circa 120 produttori del Collio da una cosa, che purtroppo sta accadendo in buona parte nella Gran Selezione chiantigiana: interpretare in senso muscolare la DOCG Collio. Se nasceranno vini solo più potenti, più concentrati, magari con più legno, dei “superwhites” che puntano esclusivamente ad un incerto futuro a scapito di un riconoscibile e godibile presente, allora avrete fallito, semplicemente  perché il Collio non è questo.  Se invece  proverete ad esprimere quello che quel vitigno o quei vitigni, nella loro massima espressione territoriale, possono dare e mantenere, allora avrete raggiunto lo scopo di essere comprensibili e vincenti. Magari non farete un vino “commerciale” ma farete un vino profondamente del Collio e il futuro non potrà che darvi ragione.

A proposito di futuro, forse la cosa più importante di tutta questa discussione è… la discussione stessa!  Quando un territorio ragiona sul suo futuro, sulle possibilità che si possono aprire, sul come provare ad affrontarle assieme,  siamo comunque di fronte  ad un qualcosa di estremamente positivo. Ancor più positivo  se la discussione non nasce spinta dal bisogno in un momento di vacche magre, ma cresce e si sviluppa proprio dalla voglia di migliorare, di ritagliarsi un futuro “a misura di Collio”.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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