Sogna ragazzo, sogna: Vincenzo Tommasi e il Pinot Nero14 min read

E ti diranno parole rosse come il sangue
Nere come la notte
Ma non è vero, ragazzo
Che la ragione sta sempre col più forte
Io conosco poeti
Che spostano i fiumi con il pensiero
E naviganti infiniti
Che sanno parlare con il cielo
Chiudi gli occhi, ragazzo
E credi solo a quel che vedi dentro
Stringi i pugni, ragazzo
Non lasciargliela vinta neanche un momento
Copri l’amore, ragazzo
Ma non nasconderlo sotto il mantello
A volte passa qualcuno
A volte c’è qualcuno che deve vederlo

Sogna, ragazzo sogna
Quando sale il vento
Nelle vie del cuore
Quando un uomo vive
Per le sue parole
O non vive più

Sogna, ragazzo sogna
Non lasciarlo solo contro questo mondo
Non lasciarlo andare sogna fino in fondo
Fallo pure tu

 [Sogna ragazzo, sogna. Roberto Vecchioni]

Se il Pinot Noir fosse un luogo, godrebbe di panorami assoluti e di immagini indimenticabili. E basterebbe allungare lo sguardo per essere in viaggio tra Oriente e Occidente, tra campi di ciliegi, giardini in fiore e banchi di spezie.

Se il Pinot Noir fosse un luogo, si troverebbe ad altezze non plausibili, da raggiungere attraverso strade d’infiniti tornanti. E basterebbe alzare lo sguardo per ritrovarsi dentro un cielo colorato di numerose tonalità di blu.

Se il Pinot noir fosse un luogo, giacerebbe su un enorme, primordiale regione calcarea con dei vigneti in mezzo, l’argilla intorno e un fottuto vento occidentale che porta tormente di grandine. E basterebbe abbassare lo sguardo sotto pochi centimetri di terra per navigare tra miliardi di antichi fossili marini.

Quella regione nella realtà esiste e si chiama Borgogna. Ad essere pignoli, la Borgogna è stata una regione della Francia fino alla riforma amministrativa del 2014, che a partire dal primo gennaio 2016 l’ha inglobata nel nuovo distretto regionale di Bourgogne-Franche-Comté, nel quale per intenderci è incluso anche il territorio enoviticolo del Jura, verso est.

Detto ciò, è bene sapere che per conoscere il vero Pinot Noir bisogna conoscere i confini dell’antica Borgogna, dove viene citato per la prima volta intorno alla metà del 1300 con i nomi di Plant Fin e di Garnet Pinot (Armando Castagno) e dove il celebre decreto del 1395 di Filippo l’Ardito ne sanciva la superiorità – e di fatto ne intimava la coltivazione.

Ancora più stringente è invero il legame che il Pinot Noir ha con il centro geografico del dipartimento della Côte d’Or, una cinquantina di chilometri che da Chenôve corrono verso sud fino a Cheilly-lès-Marange. È solo lì che il destino ha regalato a quella volubile varietà il talento per trasformarsi nei più raffinati rossi possibili, liquidi celestiali lontani dalle cose della terra, la cui assurda complessità costringe tanti appassionati in tutto il mondo a spendere follie.

Del resto la follia appartiene appieno alla personalità del Pinot Noir, tra i più selettivi e incostanti vitigni che ci è dato conoscere, e allo stesso tempo tra i più geniali che l’ampelografia abbia mai studiato e catalogato. Una varietà molto antica e geneticamente molto instabile, tanto da vantare una lunga sequenza di ascendenze e discendenze, alcune delle quali parecchio curiose, come ci raccontano Attilio Scienza e Serena Imazio nel loro ultimo libro La Stirpe del Vino (Sperling & Kupfer).

Autoctono della Francia settentrionale, il Pinot Noir occupa oggi nel mondo circa 90.000 ettari di terreno, marcando una presenza importante non solo in Francia, ma anche in Germania, Svizzera, Austria, Repubblica Ceca e – fuori dall’Europa – negli Stati Uniti, in Australia e in Sudafrica. Eppure, esso regala rossi artistici e irripetibili solo lungo quella fortunata dorsale collinare impastata di marne e di calcare, esposta a oriente, nel cuore della Côte d’Or.

Pinot nero

Solo lì il Pinot Noir diventa sublime, mescolando elementi varietali e territoriali senza far mai del tutto capire dove finiscano i primi e dove inizino i secondi. Vini che nelle condizioni più felici si traducono in liquidi di sublime purezza, a cui è impossibile resistere. Vini di bellezza rara e aleatoria: rara in quanto mai altrettanto stupefacente fuori da quelle poche migliaia di ettari coltivati a vigna; aleatoria perché continuamente messa a repentaglio dai capricci della natura.

Si è talmente consolidato il binomio Côte d’Or/Pinot Noir, che gli esiti di quel secolare miracolo enoviticolo sono diventati – ovunque nel mondo – l’archetipo di ciò che significhi fino in fondo la parola terroir. Una fusione così unica e irreprensibile, che assaggiando un Pinot Noir coltivato e vinificato fuori da quei nordici confini si ha l’impressione di svegliarsi di soprassalto da un sogno leggiadro come ali di farfalla, per planare come un Boeing 747 sulla più cruda delle realtà.

Non parliamo solo di qualità, non è questo il punto. Il punto è che altrove spariscono il genio e il talento, e rimane la normalità. Anche assaggiando i rossi più credibili, fatti con mestiere e competenza, il tentativo di accordare luogo d’origine e vitigno non risulta quasi mai risolto: qualche volta prevale il primo, altre il secondo. Avendo dunque piena contezza che la magia del Pinot Noir è la magia della Borgogna, e che altrove l’incantesimo è destinato a non funzionare.

Morfologicamente simile a una pigna (da qui il nome Pinot), si manifesta con un frutto piccolo e leggero distribuito lungo un grappolo in genere compatto, che si dirada solo laddove si presentino problemi di acinellatura (in Borgogna capita sovente). Gli acini sono piccoli e piuttosto tondi, ricoperti da una buccia talmente sottile da esporre il frutto sia alle scottature estive, sia agli attacchi di muffe e marciumi a ridosso della piena maturazione. Anche per questa ragione – a dispetto della sua ampia diffusione – è un vitigno parecchio selettivo in termini geografici, orografici e climatici, con conseguente irritazione di molti produttori ambiziosi.

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Sulla scia del clamoroso successo mondiale dei grandi rossi della Côte d’Or, che ha raggiunto vertici impressionanti soprattutto negli ultimi tre lustri, noi appassionati siamo sempre più attratti dal comportamento del Pinot Noir fuori dalla sua terra promessa. È una curiosità e una sfida. Tuttavia così facendo commettiamo un errore di valutazione, nel senso che diamo un peso determinante al vitigno e pressoché nullo al rapporto tra quel vitigno e l’ambiente che lo ospita. Commettiamo un errore se vogliamo perfino banale, visto che da decenni sappiamo che l’uva è solo lo strumento con cui il produttore <<suona>> lo spartito del suo territorio. Insomma, è come pensare che a ciascuno di noi sia sufficiente un Filicorno artigianale della Hub van Laar per suonare come Paolo Fresu: un’idiozia.

Lo sappiamo bene che il nostro desiderio è alimentato non solo dalla curiosità e dalla sete di conoscenza, ma anche dall’opportunità di bere buoni vini a prezzi finalmente democratici, vista l’antipatica deriva elitaria del mercato borgognone. Ma crediamo sia doveroso arrendersi all’evidenza che il vino buono è solo il prodotto di un determinato posto ottenuto attraverso secoli di addattamenti e di ricognizioni: non a caso i latini lo definivano genius loci (genio del luogo), ovvero qualcosa di non replicabile e di non esportabile.

Queste considerazioni ci spingono a pensare che sia dunque molto difficile, per non dire improbabile, bere un grande Pinot Nero fuori dalla Borgogna, laddove per buon Pinot Nero si intenda un vino simile ai rossi della Côte d’Or. Come scrive Armando Castagno nell’articolo “Oltre l’archetipo c’è un mondo da esplorare” (pubblicato su Civiltà del Bere nel 2017), a latitudini inferiori e in climi molto caldi rispetto alle sue origini, i vini da esso originati si rivelano goffi, surmaturi, alcolici e con odori animali così volgari da cancellare ogni briciolo di quella grazia per cui il vitigno è tanto celebre in letteratura. Per contro, in territori segnati da un clima eccessivamente rigido si corre il rischio opposto, incappando spesso in rossi crudi, vegetali, scheletrici; altrimenti rustici, duri e statici nel caso di estati accalorate.

Certo, il Pinot Noir non borgognone esiste e va conosciuto, anche perché qualcosa di dignitoso esiste, ma va appunto affrontato senza eccessive aspettative, valutandolo caso per caso, benché non sia facile. Capita ad esempio di bere vini interessanti nel Palatinato, nei Grigioni, nella Willamette Valley, e capita episodicamente anche in Italia. E quando accade la gioia è doppia; doppia perché è così raro incontrarne che pare di vincere alla lotteria; doppia perché è così raro incontrarne che spesso sopravvalutiamo vini solo dignitosi. Addirittura tripla quando di mezzo non c’è solo un buon Pinot Nero e un buon territorio, ma anche un uomo che all’uno e all’altro ha dedicato i suoi sogni.

Quell’uomo è un toscano di montagna e si chiama Vincenzo Tommasi, persona meravigliosa, agronomo e vinificatore di talento. Qualche giorno fa l’ho intervistato per farmi raccontare della sua passione per il Pinot Nero e per la Borgogna, della sua esperienza di professionista e di interprete, della sua terra (Il Casentino), della sua azienda (Podere della Civettaja) e naturalmente del suo unico vino, un rosso ogni anno sempre più vitale, luminoso, imperdibile. Ebbene, oggi che l’Appennino toscano rivendica un ruolo niente affatto marginale nel panorama nazionale del vino d’autore, molti meriti vanno riconosciuti al lavoro di Vincenzo, al suo entusiasmo, alla sua ostinazione, alla sua ossessione, al suo esempio, al suo sogno. Oggi pienamente realizzato.

Vincenzo nacque il 19 settembre 1964 a Pratovecchio, unico maschio tra due femmine, imparando evidentemente fin da subito cosa significhi l’animo femminile, lo stesso di cui sono impregnati tutti i migliori Pinot Nero del mondo. Dopo il diploma di Perito Elettronico, diede voce al suo cuore iscrivendosi alla facoltà di agraria a Firenze, che frequentò nella seconda metà degli anni 80, quando la didattica imperante era quella vicina all’agricoltura industriale; quando l’accademia pensava che le colture idroponiche fossero la felicità; quando l’agronomo era il farmacista delle piante. Da allora qualcosa è cambiato, vivaddio.

Si parlava del cuore. Ecco, Vincenzo scelse agraria perché la sua famiglia fu da sempre vicina alla campagna casentinese, dal nonno mezzadro al babbo appassionato di agricoltura e di vino, nonostante le circostanze dei tempi lo avessero spinto ad accettare un impiego statale. Fu proprio papà Bruno a persuadere Vincenzo sulla strada della “terra”, trascorrendo con lui interi pomeriggi a zonzo per fattorie e assaggiando insieme quel buon bianco prodotto dall’unica famiglia di Pratovecchio che a quei tempi vinificava con regolarità. Il bello della memoria è che tocca i sentimenti e li porta in superficie, tanto che Vincenzo si emoziona ancora oggi, ripensando all’odore delle cantine e alle vasche di cemento posizionate all’interno di quell’antico edificio in Piazza Tanucci, a Stia.

Finiti gli studi, Vincenzo fece per un po’ l’elettricista, il campeggiatore e altri mestieri episodici, tra cui il dipendente della comunità montana del Casentino (a cui deve la perfetta conoscenza di quei luoghi). Nel 1997, l’assunzione da parte del Castello di Nipozzano, la tenuta dei Frescobaldi nella Rufina, deviò definitivamente la sua esistenza in direzione del vino, visto che in Valdisieve conobbe Federico Giuntini di Selvapiana che a sua volta gli presentò l’enologo Franco Bernabei, col quale Vincenzo avrebbe collaborato negli anni successivi, facendosi le ossa anche in qualità di consulente. La consulenza continua a essere il suo secondo lavoro: una volta chiusa la collaborazione con Bernabei, ha curato le vigne di Stefano Amerighi (dal 2003 al 2009) e oggi segue alcune piccole aziende agricole tra Umbria, Romagna e Toscana.

Nel frattempo il bernoccolo per il Pinot Nero crebbe di anno in anno (<<ne sono affascinato da sempre, ben prima che io avessi avuto modo di conoscerlo e di lavorarlo>>), tanto che ne piantò una piccola parcella sperimentale a Pratovecchio, per comprendere quale fosse l’adattabilità del vitigno al Casentino (e viceversa). Di sopralluogo in sopralluogo, valutando tutte le opzioni possibili, facendo oltretutto anche numerose ricognizioni sulle più antiche varietà autoctone del Casentino (<<che alla fine non ho preso in considerazione poiché letteralmente antieconomiche>>), nel 2002 mise gli occhi su Civettaja e <<complice la vista di sette cervi che in quel momento transumavano sul podere>> se ne innamorò letteralmente, scegliendo con istinto felice il miglior posto possibile (almeno col senno di poi) per avviare la sua cantina.

Da allora Civettaja è diventata la sua vita, e quella del vignaiolo una professione a tempo pieno: vi piantò la prima vigna di Pinot Nero nel 2006, fece il primo vino nel 2008 e senza pause dedica a quel progetto (che oggi conta poco più di tre ettari vitati) decine di ore di lavoro al giorno, tra pensieri, gioie e grattacapi.

Un altro passo decisivo sulla via della consapevolezza e della maturità di interprete fu per Vincenzo la conoscenza di Henry Jayer, vignaiolo borgognone ammantato di leggenda già in vita (e scomparso nel settembre del 2006) e per non pochi osservatori smaliziati il più grande produttore di tutti i tempi. Secondo solita letteratura Jayer concepiva vini luminosi e complessi eppure sempre piacevoli, mai ostentati; vini ottenuti con protocolli che seguivano il buon senso, prima di tutto. Qualità che Vincenzo ha imparato da quell’uomo stimato da chiunque lo abbia conosciuto, da Jacky Rigaux a Christophe Roumier, da Aubert de Villaine a Jean Nicolas Meo, dallo sfortunato Didier Dagueneau al nipote Emmanuel Rouget, dimenticandone altri.

Anche in virtù di quell’esperienza e grazie a numerose ottime versioni del Pinot Nero prodotto da Vincenzo negli ultimi dieci anni, Civettaja è considerata a ragione un Grand Cru del Pinot Nero in Italia, diviso pressoché in parti uguali tra l’azienda di Vincenzo Tommasi (Podere della Civettaja) e l’impresa del suo amico Federico Staderini, il quale fu coinvolto da Vincenzo nell’acquisto di una parte della proprietà (in principio nota come Podere Santa Felicita, oggi semplicemente Cuna).

Vincenzo è un uomo che conosce l’attesa, conscio che la fretta non serve quando di mezzo c’è la vita; che il tempo è decisivo per dirimere ogni faccenda complicata. E il Pinot Nero è per lui vita e complicazione, senza soluzione di continuità. A Vincenzo il Pinot Noir ha tolto ore di sonno e di famiglia; ha per anni monopolizzato le sue attenzioni, i suoi studi, i suoi sogni.

Sognando, studiando e tribolando ha imparato tanto, tantissimo, come pochi altri in Italia. Ha imparato ad esempio che il Pinot Nero è un’uva molto trasparente, <<un medium fantastico>>, che lascia respirare tutto: per questa ragione non è capace di moderare alcun elemento, solo di sublimarlo. Ha imparato che <<se altri vitigni possono trovare una strada anche nella modestia, il Pinot Nero non ce la fa.>>

<<Il Pinot Nero va lavorato con delicatezza estrema, ogni manipolazione è uno sfregio, per questo esige una gestione enologica spontanea, ancestrale, prediligendo l’infusione all’estrazione. Non è solo un luogo comune: il Pinot Nero è proprio bizzarro. Però se operi al meglio, se rispetti le sue esigenze agronomiche ed enologiche, allora ti ripaga con gli interessi, lasciando emergere tutta la sua nobiltà.>>

<<Qui abbiamo la fortuna di avere terreni argillo-calcarei, un’eccezione rispetto al resto dell’Appennino, che è di matrice arenacea: l’argilla è preziosa per il Pinot Nero. Le vigne migliori della Côte de Nuits possiedono una superba quantità di argilla. Il Pinot Noir ha bisogno di un terreno che nutre, che gli garantisca costanti rifornimenti e buona energia.>>

<<Il Pinot Noir è schiavo del clima fresco e noi qui possiamo usufruire di condizioni climatiche non così differenti da quelle della Borgogna, con temperature massime più alte e valori minimi più bassi. Qui a Civettaja, intorno ai 500 metri di quota, le notti estive sono piuttosto fresche, e aiutano la vite a respirare, i grappoli a conservare salubrità e gli acini a immagazzinare acidità, profumi ed elasticità della buccia. Anche i nostri pH sono in sintonia con quelli della Côte d’Or.>>

<<Da quando faccio vino, ho sempre seguito i principi di Henry Jayer, senza mai allontanarmi dalla sua “guida”. Lui insegnava che tutto inizia e finisce in vigna, che il vignaiolo deve fare il vignaiolo e deve stare in vigna. E diceva che l’enologia va studiata e non applicata, nel senso che occorre la prevenzione, non la cura. Io ho scelto di piantare a densità elevate (9000 ceppi/ettaro) solo materiale di Borgogna, sia sulle piante che sui portainnesti. Si tratta di selezioni che producono pochissimo, non più di 500 grammi per pianta. Qui da noi non c’è bisogno di diradare, il carico per pianta è per sua natura basso, la genetica dei biotipi scelti regala equilibrio in tal senso e questo conta molto in termini di sapore. Dopodiché Jayer suggeriva di diraspare e di usare il freddo all’inizio per esaltare le componenti aromatiche del vitigno, ma lo ripeto, la sua ossessione era la vigna: una grande uva è indispensabile per fare bene.>>

Da qualche tempo Vincenzo ha allargato la società a due nuovi soci e collaboratori, entrambi giovanissimi: Lucia e Alessio, <<due persone eccezionali.>> Con loro, Civettaja è diventata una squadra e una famiglia, il perfezionismo di Vincenzo trova riparo nell’entusiasmo dei ragazzi, lui si fida di loro e loro sentono di poter portare Civettaja ancora più in alto, ben oltre le vette dell’Appennino, per guardare il mondo intero.

Sognando la Borgogna.

 

“A Tamy, come sempre”

 

Foto Vecchioni  di Paolo de Francesco che ringraziamo.

 

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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