Correva l’anno 1968 e le gemelle Anna e Marta Manetti, mie compagne di scuola alle medie e al liceo, si lamentavano spesso del fatto che Babbo Sergio le portasse nei fine settimana in un posto sperduto dopo Radda in Chianti “E’ a quasi un’ora di macchina su strada sterrata e tutte curve, non si arriva mai.”
Così ho conosciuto Montevertine, ma sarebbe passato molto tempo prima che potessi vedere questo posto dove “non si arriva mai”.
In effetti la prima volta che sono andato a Montevertine, quasi 15 anni dopo, la strada era in parte asfaltata ma ci volevano sempre 40-45 minuti da Poggibonsi.
Parlo di Poggibonsi non solo perché è il mio paese ma perché la storia di Montevertine ha nel suo DNA la mia città. Montevertine è infatti nata ed è diventata quello che è grazie a due poggibonsesi , Sergio Manetti e Giulio Gambelli, che assieme ad un Raddese, Bruno Bini, hanno creato non solo una grande cantina, ma un esempio.
Sergio e Giulio erano due persone diversissime ma avevano una caratteristica comune: vedevano lontano, molto lontano, dove gli altri nemmeno immaginavano si potesse arrivare col pensiero e non solo.
Sergio, nato come industriale, è stato forse il primo toscano a riconvertire in agricoltura i guadagni dell’impresa, vedendo un futuro in una zona dove c’erano solo alberi, vigne e miseria. In quegli anni infatti chi vendeva casolari in Chianti faceva spesso questo discorso “Il posto è meraviglioso, la casa bellissima anche se un po’ da risistemare, non fate caso agli ettari di vigna, quelli potete anche lasciarli perdere o farli lavorare a qualche contadino locale.”
La vigna in Chianti nel 1966-67 non solo non valeva niente, ma era un ostacolo, un impedimento da abbandonare a se stessa. Ci voleva la vista lunghissima di Sergio per riuscire a vedere quello che adesso è sotto gli occhi di tutti, per immaginare un mondo completamente diverso da quello di allora, per capire che quella strada sterrata sarebbe non solo stata asfaltata ma percorsa da tutti quelli che amano il sangiovese e il Chianti.
E ci voleva la vista lunghissima di Giulio, la sua immensa conoscenza del sangiovese, per creare vini che oggi vengono presi come esempio di quello che può dare il sangiovese nel Chianti. Non era facile farlo e continuare a farlo, sia all’inizio quando il sangiovese non lo voleva quasi nessuno sia dopo, quando oramai il sangiovese lo volevano tutti ma… fatto in un’altra maniera. Giulio guardava sempre oltre e la sua tranquillità credo sia servita molto a Sergio per tenere la barra dritta.
Ma con due persone che vedevano così alto e lontano ci voleva uno che guardasse in basso e vicino, molto vicino. Questo era Bruno Bini, l’uomo che trasformava in realtà tangibile quello che Sergio e Giulio avevano nelle loro menti.
Bruno è stato l’ancora della nave Montevertine, quello che giornalmente eseguiva, imparava e insegnava ad altri come far nascere un grande sangiovese. Era sempre un passo dietro a Sergio e a Giulio, ma nello stesso tempo era anche un passo avanti, perché oramai sapeva quello che andava fatto e lo faceva alla perfezione.
Questi tre uomini (e mi scuso con quanti hanno collaborato, anche in maniera importante e che qui, per motivi di spazio, non posso presentare) sono riusciti a creare non solo una grande cantina, ma uno dei punti fermi del vino italiano, una di quelle mete che non si può non conoscere.
Anche Martino Manetti, degno erede del grande Sergio, è stato bravo a tenere la barra dritta dopo la scomparsa di tanto padre e nel riuscire a navigare attraverso mari non certo calmi, dovuti anche alla successiva perdita di Giulio e Bruno.
Ma oggi, a pochi giorni dalla celebrazione dei 50 anni (si farà sabato 16 settembre) voglio ricordare con grande affetto e infinito rispetto soprattutto i tre che hanno creato Montevertine e che, per fortuna, hanno insegnato molto anche a chi scrive.
Scherzando tempo fa dissi a Martino che non sarebbe stato male creare un nuovo vino e chiamarlo Montrevertine in onore di Sergio, Giulio e Bruno; magari primo o poi lo farà.
Sicuramente sabato li ricorderà e in quel momento sono convinto che dovrò rimandare indietro una lacrima particolare, nata quasi cinquanta anni fa sentendo parlare di un posto a quasi un’ora di macchina, su strada sterrata e tutte curve, dove non si arrivava mai.