L’articolo di Natale: perché scomparve il vino a Digione?7 min read

Il nostro Guglielmo Bellelli ci spiega come è caduto e risorto il vigneto e il vino attorno a Digione. Una bella e tranquilla lettura per il giorno di Natale e per quello di Santo Stefano, che vedrà la pubblicazione della seconda parte, relativa alla rinascita.

Secondo una vecchia espressione un po’ abusata “Digione è la capitale della Borgogna, ma Beaune è la capitale del Borgogna”.

Abusata ma ineccepibile: a Beaune  sarebbe difficile anche al visitatore più distratto ( e non solo nei fatidici giorni delle Trois glorieuses) non accorgersi  di trovarsi in una città nella quale il vino non è un’attrazione aggiuntiva  ma il nucleo intorno al quale si sviluppa tutta la città.

Le più grandi Maisons storiche e produttori più piccoli, ma non meno dinamici, hanno le loro sedi nel centro e ogni tre-quattro esercizi commerciali é sempre presente almeno un’enoteca o un locale nel quale si beve vino. Insomma, il vino è difficile da ignorare.

A Digione è diverso: il vino non è assente, ma non ha una presenza altrettanto pervasiva:   bisogna cercarlo per vederlo. Un tempo non era affatto così, come mostra, con ampia ricchezza  documentaria, anche  il bel libro di Jean-Pierre Garcia e Jacky Rigaux  “Vignes et Vins du Dijonnois. Oubli et renaissance” (2012).

Vigne fin dal VI secolo

La vigna vi  era presente da epoca molto antica: basti accennare  a Gregorio di Tours, che  nel VI sec.  scriveva, a proposito di Dijon,  che nel suo territorio  vi sono colline  molto fertili, coperte di vigne, che danno agli abitanti “un si noble Falerne”. Nel Medioevo la vigna era  tutta intorno alla città  e, fino alla prima metà del XIX secolo, ricopriva una parte importante del suo territorio: nel 1830 essa raggiunse  la sua estensione massima in superficie, 1.400 ettari.

Vigne erano a Talant e Fontaine  già dal XIII sec, e a Perrières dal XIV, sui pendii più scoscesi, esposte a sud-ovest. Erano a Plombières, nelle vicinanze del letto dell’Ouche, a Marcs d’Or, al punto di incrocio    dell’estremità della Côte e l’imbocco della valle dell’Ouche a Larrey, e  naturalmente a  Chenôve e Marsannay .

Per non parlare di quelle piantate nel corso del XIV sec.  sui terreni meno inclinati e più pianeggianti della  Butte de Montmuzard, Minde, Poussots e Lentillères: esposte a ovest, con vitigni più produttivi, come il gamay, destinate al  consumo popolare. Le autorità ducali cercarono poi di farle estirpare (senza successo).

Il successo del vino di Digione

Insomma, il vino scorreva a fiumi, a Dijon. Non aveva la notorietà di quello di Beaune, ma aveva una    reputazione molto alta: ancora nel XVI sec. il vino di Digione aveva un costo più elevato di quello di qualsiasi  altro comune della Côte de Nuits (Qui fig. 2) e avrebbe perduto il suo primato solo nel secolo successivo nei confronti di Chambertin e del Clos de Bèze.

La queue era un fusto di 456 litri.

Del resto Digione fece ampio uso dell’Octroi, una sorta di autorizzazione dell’autorità municipale, in base alla quale i vignerons  provenienti dall’esterno (inclusi quelli di Beaune o di Morey) erano costretti a pagare un diritto di passaggio  per poter introdurre e commercializzare i propri vini.

La città si sviluppava in stretta connessione con la campagna ed erano solo  i remparts a marcare la separazione  tra spazio urbanizzato e spazio coltivato.  Saint-Philibert, in prossimità della cattedrale, era il quartiere dei vignerons, o dei “culs bleus” (così erano chiamati) e a place François Rude c’è ancora la statua del Bareuzai (1) a ricordare le antiche feste della vendemmia. Il mercato, all’ingrosso e al dettaglio del vino, si trovava a Place Saint-Jean, dove abbondavano anche i tonneliers.

I Duchi naturalmente erano i maggiori proprietari di vigne, insieme con la Chiesa. Il 60% di quelle dei Duchi erano intorno alla città, a Marcs d’Or, Talant e naturalmente a Chenôve, dove era anche il cellier con i grandi torchi che ancora oggi può essere visitato dai turisti. Gli ordini monastici non erano da meno. I cistercensi non mancarono infatti di creare all’interno della città delle proprie cantine urbane.  Si trattava di strutture polivalenti, che oltre alla vinificazione (fino al XVIII sec. si produceva ancora vino in città, come mostra chiaramente la pianta del convento delle carmelitane, nella rue Crébillon attuale) e allo stoccaggio dei vini,  permettevano agli abati di disporre di un pied-à-terre in città, in prossimità dei luoghi dei potenti e di accogliere gli abati dei monasteri dell’ordine per il Capitolo Generale.

Cîteaux era già insediata nel futuro Clos de Vougeot, quando, nel 1142, il Duca Eudes II donò all’abbazia un fabbricato inizialmente situato al di fuori delle mura di Dijon.  A quel tempo la città era divisa in due poli distinti: un insediamento più antico, che  si trovava all’interno dell’antico castrum, mentre  un piccolo borgo si era sviluppato in epoca più recente intorno alle mura di St. Philibert.

Il vino dei monaci

Nella seconda metà del ‘300  la proprietà dei monaci fu ricollocata all’interno della nuova cinta muraria della città, nell’attuale rue Condorcet.  Le Petit Cîteaux, come veniva chiamato, conteneva, oltre a un cellier, anche alcune piccole vigne nel territorio dijonnois: alla prima donazione del 1142 seguirono un piccolo  clos nel 1186 di un journal  e poi altri appezzamenti  all’incirca delle stesse dimensioni nella Cuperie, a Poussot, Mercemeix, Bessey,  alla Mirande e via via altri che si aggiunsero successivamente nei territori  di Dijon e Chenôve.

Non furono da meno Morimond e altre filiazioni cistercensi, tra le quali naturalmente  Clairvaux, il cui cellier resta  il più  accessibile e  meglio documentato del gruppo, anche se  lo sviluppo urbano e le varie ristrutturazioni , come la ricostruzione del quartiere della Prefettura, ne hanno alterato la purezza originaria.

Dal XIV al XVII sec., dunque, il vino del “creu du Dijonnaiz” , che comprendeva anche Chenôve, Talant e Fontaine, aveva un’alta reputazione e un valore elevato e le  amministrazioni municipali vigilavano strettamente sulla sua qualità. Progressivamente, però, i vini della Côte de Nuits guadagnarono maggior prestigio, mentre i vini della città cominciarono a perdere terreno. Solo Les Marcs-d’Or e il Clos du Roy  (già Clos des Ducs fino al 1477) resisterono al generale decadimento della vigna.

Inizio del declino

L’importanza del marchio della città, fino ad allora predominante, cedeva di fronte   a quella delle vigne più lontane e più vocate, spinta anche dall’influenza dei notabili di Dijon , che avevano interesse a valorizzare  le terre da loro acquistate . Se un tempo un vino di Vosne diventava “di Dijon” e contrassegnato con la lettera “D”, una volta entrato nel territorio cittadino e verificato   il livello di qualità, ora veniva indicato  a partire dalla sua reale provenienza, quella  del “creu” di Vosne. Alla fine del XVII sec. una queue  di vino di Dijon o Chenôve costava ancora 50 lire, dieci più di una di Couchey, ma ormai a Chambertin o a Bèze aveva raggiunto già  le 120 lire. Un secolo dopo (1788, qui seconda tabella) la differenza tra una queue di Chambertin a una di Dijon era ormai di 5:1. La decadenza del vino di Dijon sarebbe stata definitivamente consacrata un secolo dopo, dal classement di Lavalle del 1855.

Lo sviluppo urbano della città non aveva però arrestato quello della vigna : il disboscamento  recuperava nuovi spazi ,  a est come a sud, ma in essi era il più generoso gamay a farla da padrone , destinato alla  produzione di vini di qualità corrente per la sete dei nuovi ceti popolari. Il resto lo fece la fillossera, che lasciò la strada libera all’urbanizzazione .

Anche le vigne che un tempo erano state più famose, come il Marcs-d’Or, dovettero cedere alla crescente pressione urbana legata ad una popolazione cresciuta di dieci volte.

Marcs d’Or

Negli anni ‘60 del  secolo scorso, il  cemento avrebbe definitivamente ingoiato ciò che restava di questo climat , i cui vini un tempo si confrontavano con quelli di Meursault, sotto gli occhi tolleranti del canonico Kir, che tutti conosciamo per il suo blend di aligoté e cassis.

Sindaco di Dijon dal 1945 al 1968, Kir  non fece nulla per salvare la vigna appartenuta ai duchi di Borgogna. Dei dieci ettari che ancora ricopriva alla fine degli anni ’30, parte dei quali formavano il Clos Pascal, ne restavano la metà nel 1967, quando fu definitivamente divelta.

 

Fine della prima parte. La seconda parte verrà pubblicata per Santo Stefano.

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1.Il Bareuzai  era un soprannome dato ai vignaioli borgognoni: nella statua di Noël-Jules Gérard di place François Rude è raffigurato mentre pigia l’uva. Il journal era una misura dell’epoca che corrispondeva a circa un terzo di ettaro (34,28 are) .

Guglielmo Bellelli

Nella mia prima vita (fino a pochi anni fa) sono stato professore universitario di Psicologia. Va da sé: il vino mi è sempre piaciuto, e i viaggi fatti per motivi di studio e lavoro mi hanno messo in contatto anche con mondi enologici diversi. Ora, nella mia seconda vita (mi augurerei altrettanto lunga) scrivo di vino per condividere le mie esperienze con chi ha la mia stessa passione. Confesso che il piacere sensoriale (pur grande) che provo bevendo una grande bottiglia è enormemente amplificato dalla conoscenza della storia (magari anche una leggenda) che ne spiega le origini.


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