Fattoria Sardi: la grintosa “pecora rosa” delle Colline Lucchesi4 min read

Anagrammando la parola rosati si ottiene storia, termine dalle molteplici valenze:  può essere inteso come storia universale o, più semplicemente come una semplice storia personale, come quella che ha legato due giovani enologi sia nel vino che nella vita. E la loro storia è l’anagramma e il suo contrario, perché è storia di rosati.

Sto parlando di Mina Samouti e Matteo Giustiniani, giovani enologi che hanno unito le loro competenze e lo loro vite (anche le loro viti, se mi è concessa la trita battuta) e adesso stanno portando avanti assieme Fattoria Sardi, vera e propria “pecora rosa” nel mare dei bianchi e dei rossi prodotti nelle colline lucchesi.

Perchè rosati

All’azienda , che nasce da una proprietà della famiglia Giustiniani, ho affibbiato questo nomignolo (pensando ad un famoso disegno dove tutto un gregge, tranne una pecora nera che spinge per andare giustamente in senso opposto, si sta gettando in un burrone) perché la sua produzione è incentrata principalmente sui rosati. Si fosse nel Salento  nessuno troverebbe niente da ridire, ma siamo in una zona da sempre considerata vocata per i rossi e da diverso  tempo utilizzata con successo per i bianchi: mettersi qui a produrre  soprattutto rosati vuol dire fare la pecora nera, pardon rosa del gruppo, cioè andare  controcorrente.

Mentre ascoltavo i loro perché della scelta (circa il 70% delle 100.000 bottiglie annue è di vini rosati) il mister Hyde che da sempre vive in me mi ricordava la storia dello Champagne: quella in definitiva di un vinello di bassa gradazione, acido e poco profumato che non avrebbe avuto futuro se non fosse diventato spumante.

Aldilà di giustissime considerazioni credo che Mina e Matteo abbiano pensato questo “Possiamo produrre buoni rossi e interessanti bianchi, rimanendo però “zavorrati” ad  un territorio non certo conosciuto a livello mondiale, oppure sparigliare le carte e provare a fare, bene e con serietà, quello che queste vigne  sono adatte a fare”.

Detto così è facile pensare ad un approccio tecnologico e invece è tutto il contrario: la cantina è  certificata biologica, opera in  biodinamica e quello che abbiamo visto è tutto fuori che un microcosmo dove la tecnologia la fa da padrona.

La coraggiosa e particolare degustazione

A proposito, la padrona di casa ha accolto me e altri colleghi non (solo) per farci assaggiare i suoi rosati, ma per farceli gustare bendati assieme ad altri quindici rosati sia italiani che francesi.

Ecco perché sto parlando di loro, per la coraggiosa organizzazione di una degustazione bendata sui rosati che, udite udite, era divisa in due parti, quelli fatti solo in acciaio e quelli fermentati e/o maturati in legno.

Coraggiosa e curiosa iniziativa quindi che, a cavallo di una ventina di vini, mi ha permesso di incontrare diverse realtà rosate, alcune eccezionali altre non proprio soddisfacenti.

I vini

Partiamo dai padroni di casa di Fattoria Sardi  che presentavano i loro due vini, il Rosé e Le Cicale 2016: entrambi sono vini dove la tecnica (che c’è) lascia il posto al cuore. Il primo, partendo da una volatile leggermente alta, mostra bei profumi di fragola e fiori di campo con una bocca sapida e quasi croccante. Il secondo mi ha veramente stupito perché non solo il legno è ben dosato, ma addirittura surclassato da note di frutta di bosco e di rosa, con una bocca elegantemente tannica, sapida, molto equilibrata e di ottima lunghezza: è stato uno dei vini che ho più apprezzato.

Quello invece che mi ha fatto veramente impazzire, per cui andrei a nuoto fino in Sardegna a comprarlo, è il Rosato 2016 Barrosu di Giovanni Montisci: da uve cannonau è un vino esplosivo  al naso e in bocca. Ancora molto giovane e scomposto ha diviso in due la sala: amore o odio e il mio è stato amore a primo sorso.

Buonissimo anche il Vin Ruspo Rosato 2016 di Capezzana, speziato, concentrato, alcolico ma con nerbo, e molto accattivante il Pinot Grigio Ramato (intruso ma con “permesso di soggiorno”) 2016 di Attems.

Tra le delusioni metto al primo posto il Cerasuolo d’Abruzzo 2016 di Emidio Pepe, seguito dai due vini di  Chateau d’Esclans, il Whispering Angel  2016 e Le Clans 2015 (da uve grenache e vermentino il secondo mentre il primo ha in più un tocco di cinsault), e da A Rosé, aleatico in purezza di Antinori dal prezzo stratosferico.

Conoscendomi sono rimasto sorpreso dall’aver apprezzato di più i rosati in legno: devo ammettere che solo uno, il Vigna Mazzì 2015 di Rosa del Golfo  era esagerato sia in legno che nell’alcol , mentre gli altri giocavano con sagacia ed eleganza le loro carte.

Sono venuto via da Fattoria Sardi, accompagnato dalle dolci tonalità di verde che in questa stagione  vestono le colline  lucchesi, sicuro che la coraggiosa pennellata rosa di Mina e Matteo (l’anagramma dei due nomi è “enomatti ma…”) era la cosa giusta da fare.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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