Chi avrà letto il nostro articolo sui bianchi siciliani pubblicato lunedì saprà perché dedichiamo un articolo ai bianchi e ai rosati (più avanti ai rossi) solo dell’Etna. Per chi non lo sapesse riassumiamo: L’Etna è oramai un mondo a sé nella variegatà realtà del vino siciliano e quindi ci sembra doveroso valutarlo e parlarne in maniera distinta.
Inoltre ci sembra giusto premiare il grande lavoro che ha fatto per noi il Consorzio di tutela dei vini dell’Etna, raccogliendoci un numero incredibile di vini e spedendoli al nostro ufficio. Il grande pallet arrivato in magazzino ci ha lasciato a bocca aperta e quindi non possiamo che dire grazie, grazie, grazie.
Ben 40 bianchi etnei non sono pochi e ti permettono di fare un quadro sicuramente probante su dei vini che si sono imposti sul mercato da alcuni anni ma che adesso devono trovare una strada ancor più precisa e soprattutto hanno il dovere di “non vergognarsi” di alcune spigolosità tecniche che comunque connotano il territorio e lo fanno “annusare” nel calice e riconoscere al palato.
Uno infatti dei possibili problemi di una Doc (parliamo dei bianchi) così giovane è il voler “piacere al mercato non locale” che in altri termini vuol dire creare vini indubbiamente buoni ma meno austeri e meno veritieri delle durezze che la viticoltura etnea si porta dietro.
Per esempio pochi sanno che sull’Etna c’è una piovosità da zone del nord Europa (spesso nei mesi critici di agosto-settembre) e anche se si vede il mare il suo influsso a 750-800 metri è impercettibile. Per questo trovare qualche campione troppo morbido e accattivante fa pensare che in qualche caso (magari con vigne giovani o ad altezze inferiori) si provi a far passare una “internazionalizzazione” dei bianchi etnei che per noi porterebbe solo ad un impoverimento della denominazione e della realtà etnea.
Impoverimento che potrebbe riflettersi anche sul prezzo dei vini anche se oggi, lasciatecelo dire, è in diversi casi veramente da affezione. Quando si porta un bianco d’annata sopra ai 20/25 euro in enoteca si supera ogni altra denominazione italiana ma a quel punto bisogna anche avere la grande qualità per motivarla. Qualità che c’è ma non in tutti i casi e, pur capendo che coltivare viti sull’Etna non è come farlo in una pianura fertile, certe cifre per dei bianchi d’annata o di uno-due anni, non sappiamo quanto porteranno acqua al mulino della denominazione.
Ma veniamo al brevissimo periodo, cioè ai nostri assaggi di pochi giorni fa, che ci hanno veramente soddisfatto. Molti vini oltre che buoni, vibranti al palato, riconoscibili, profondi, ci hanno veramente fatto capire che sull’Etna si stanno facendo cose egregie e se ne potranno fare di migliori. Se non fossimo storicamente “di braccino corto” avremmo premiato molti più vini ma la media punti è comunque molto, molto alta.Inoltre se si pensa a quanti ettari siano stati piantati negli ultimi anni e all’età media dei vigneti di carricante non si può che prevedere un bel futuro per questa tipologia, che oramai quasi tutte le grandi cantine siciliane hanno tra le loro referenze. Questo ci riporta un po’ a quanto dicevamo prima riguardo alla “internazionalizzazione”, ma forse i produttori “stranieri” hanno solo bisogno di tempo per adeguarsi al territorio. Del resto il carricante è una grande uva non è certo facile da capire e da coltivare.
Per quanto riguarda i rosati il discorso è leggermente diverso: per molti produttori l’idea del vino rosato è nata da poco e c’è da capire come utilizzare il nerello mascalese, adattandolo alla tipologia. Non è cosa semplice e adesso, scusateci la chiarezza, non andiamo aldilà di vini ben fatti ma senza quel “timbro geografico”, che nei bianchi è ben presente.
A proposito di “timbro”, un vino etneo si deve riconoscere da quello che c’è in bottiglia e non dalla bottiglia inutilmente ridondante e pesante. La maggioranza dei bianchi e una buona fetta dei rosati va in commercio dentro bottiglie grandi, grosse e pesanti che, oltre a non rappresentare l’idea “verticale” dei vini etnei, inquinano e costano di più. Una fetta dei produttori punta sul biologico e quindi perché utilizzare bottiglie che rendono di fatto inutile il credo biologico?
Capiamo che è difficile ma in questo caso il consorzio dovrebbe provare ad intervenire, creando una bottiglia “Etna” di massimo 440-450 grammi e facendola adottare ai produttori e magari qualche grande nome locale potrebbe dare una mano dando l’esempio.
Ma torniamo ai bianchi (e ai rosati) degustati, che ci hanno fatto anche capire come questi vini possano maturare nel tempo, sempre se non si eccede nell’utilizzo di legni invadenti, come in qualche caso abbiamo dovuto constatare.