Alto Adige, alcune considerazioni critiche8 min read

 Dopo aver legato per lungo tempo il suo destino vinicolo al vitigno Schiava, i cui pallidi rossi erano un tempo parecchio apprezzati in particolare sui mercati di lingua tedesca (e per fortuna oggi gli appassionati ne stanno riscoprendo il valore), nell’ultimo quarto di secolo il comparto enoviticolo dell’Alto Adige ha radicalmente trasformato sia il proprio indirizzo enologico (oggi per lo più bianchista e caratterizzato da varietà internazionali), sia la propria immagine, portando la provincia di Bolzano ai vertici dell’enologia italiana. Trasformazione che ha coinvolto tutte le categorie produttive, dalle grandi cantine sociali al più piccolo dei vignaioli, passando attraverso le aziende commerciali: un gioco di squadra, più o meno pacifico, che ha fatto volare l’Alto Adige dove mai sarebbe stato possibile immaginare trent’anni fa, ovvero a competere con il meglio del vino europeo.

Il primo aspetto che dell’Alto Adige di oggi rimane negli occhi del viaggiatore, è la ricchezza dei luoghi, delle cose e delle persone, niente affatto esibita, ma tangibile. Le grandi cantine sono all’avanguardia, i vigneti curati, le strade del vino ben promosse, i villaggi valorizzati nelle loro autenticità, le attività consortili piene di risorse, non solo economiche, anche umane.

Il secondo valore che in Alto Adige è decisivo è la luminosità. Luce nitida, brillante, verticale, un laser tra frutteti e vigneti, tra montagne e fiumi. La luminosità migliora le performance dell’uva e dunque del vino. I vini dell’Alto Adige sono vini di sole e di luce: nelle annate temperate la luminosità è più preziosa del calore, poiché il sole brucia, mentre la luce illumina e sostiene la fotosintesi, preservando vieppiù profumi, acidità e sanità dei grappoli.

La terza ragione che rende l’Alto Adige una grande terra da vino risiede nei terreni, che sono molteplici: calcarei, porfirici e granitici, morenici e alluvionali, a reazione acida  e alcalina. Ci sono suoli di gneiss e di scisti, ci sono suoli più o meno argillosi, più o meno sabbiosi, ma pressoché sempre pietrosi e permeabili, in grado di conservare l’opportuna sanità anche nelle stagioni più difficili.

Il quarto elemento tipicamente altoatesino è il vento, il tiepido Favonio (Föhn in tedesco), che spazza via le nuvole e rende miti le temperature diurne: esso si presenta quando le correnti d’aria, nel superare le Alpi, arrivano lungo la Valle dell’Adige perdendo parte della propria umidità per aver scaricato a monte le precipitazioni più minacciose.

La quinta fortuna della regione si deve alla competenza degli addetti ai lavori, proprio di tutti gli operatori che orbitano intorno alle cose vinose: agronomi, enologi, sommelier, ristoratori, distributori, osservatori, amministratori. Del resto gli altoatesini sono lavoratori disciplinati, preparati, lungimiranti, e chi li governa sa come si sostiene il mercato senza dimenticare la vigna e viceversa; sa come comprendere le esigenze dei bevitori, facendone tesoro.

Ultimo aspetto da non dimenticare è l’ordine. Ordine civico e urbanistico, ordine agricolo e sociale, ordine programmatico, produttivo, organizzativo. Ordine che nei vini si sente, tanto che per un numero cospicuo di appassionati l’Alto Adige rappresenta un approdo sicuro, un orologio di impeccabile precisione, uno straordinario bacino di liquidi tecnicamente irreprensibili, profumati e appaganti. Si tratta di vini implacabili in termini di costanza, ideali per il pubblico più eterogeneo, dall’appassionato più colto al più distratto dei neofiti.

Va detto che la proposta odierna è così priva di defaillance che da qualche tempo gli enofili più temerari rimproverano l’Alto Adige di un eccessivo controllo, di una sorveglianza quasi pedante, di un tecnicismo ostile alle emozioni. Da qui il luogo comune che da anni ne rispetta lo standard qualitativo, inscrivendoli tuttavia nel contesto dei prodotti ben confezionati e un po’ noiosi.

In effetti la ricerca esasperata della perfezione formale e insieme la predilezione dell’uniformità sulla varietà, dell’omogeneità sulle differenze, dell’ortodossia sulla creatività, della comunità sulle individualità, della cooperazione sulle piccole intraprese agricole, se ha premiato l’Alto Adige dal punto di vista commerciale, ha talvolta negato alla zona la realizzazione di vini più originali e unici, se vogliamo più appetibili per i grandi amatori. In tal senso, il vero limite dell’Alto Adige è la sterminata quantità di opzioni varietali a cui i produttori quasi mai rinunciano per realizzare la loro gamma: è ormai una consuetudine regionale alimentata solo in parte da una reale attitudine territoriale e più spesso costretta da esigenze di vendita.

Va detto che da quelle parti negli ultimi due decenni le motivazioni mercantili hanno prevalso sulle logiche di territorio. Pare in effetti poco credibile che ciascuna delle venti uve coltivate in regione possa trovare all’intero di ogni comune, di ogni località, di ogni sito aziendale le condizioni per esprimersi al meglio. Eppure sovente molte cantine, in particolare le più grandi e affermate, tendono ad allestire cataloghi sterminati e compilativi, in cui ogni variazione varietale non è solo possibile, ma indispensabile.

È soprattutto questa la ragione che mi spinge spesso a preferire il lavoro di alcuni vignaioli altoatesini artigiani, fedeli al mandato del proprio luogo: dai veterani Martin Aurich, Peter Dipoli, Ignaz Niedrist, Josephus e Heinrich Mayr e Andreas Widmann; ai maturi Manni Nössing, Armin Kobler e Peter Pliger; ai giovani Martin Abraham, Michela Carlotto, Christian Garlider, Martin Gojer e Patrick Uccelli.

DIECI PUNTI PER ALCUNE RIFLESSIONI

  • In Alto Adige si beve benissimo. E si spende il giusto. Difficile ottenere di meglio soprattutto sul versante bianchista. Cresce a ritmi sostenuti la qualità del Pinot Noir(a patto di dimenticare la Borgogna). Le migliori Schiava, “chiaretti” naturali dalla beva compulsiva, andrebbero rivalutate definitivamente.
  • In Alto Adige uomini e donne possiedono un solido materialismo nel sangue, come un estratto di Speckknödel, e questo lato del loro carattere si traduce (non sempre, ma spesso) in progetti fin troppo razionali. Forse, ogni tanto, un poco di geniale improvvisazione farebbe bene alla salute del vino altoatesino.
  • E va bene che l’organizzazione deve sempre prevalere sull’approssimazione, altrimenti si fatica a raggiungere obiettivi concreti, ma occorre rammentare che tutte le migliori organizzazioni possono fallire. E in moltissimi modi: perché di solito uno dei loro tanti meccanismi interni, uno qualunque, perfino quello apparentemente più solido, s’inceppa, facendo franare tutta la struttura. Si può prevedere tutto, ogni singola manovra, ogni dato parziale, ogni più insignificante grado di cambiamento, eppure il cortocircuito non si può mai escludere. Mai. A tal proposito, non ho amato le prime uscite di quei vini, soprattutto bianchi, chiamati “gran selezioni”, presenti a tirature molto limitate e a prezzi altissimi nei listini di molte cooperative e cantine commerciali. In queste bottiglie la razionalità sudtirolese raggiunge il suo zenit e va in fuorigioco: le premure prevalgono sulle minuzie, schemi e protocolli prevalgono sulla spontaneità, la ricerca di perfezione sulla ricerca di territorialità.

  • Qualche volta negli enologi altoatesini, bravissimi, la voglia di dimostrare la propria competenza surclassa o trasfigura le effettive esigenze di vitigni e territori, generando dunque liquidi irreprensibili nella cura, lussuosi nella confezione, ma in debito di spontaneità.
  • Stando così le cose, la mentalità del comparto altoatesino appare più commerciale che non territoriale. Forse iwinemaker altoatesini sono ormai più collaudati ad assemblare che non a isolare le singole personalità del territorio.
  • Mi domando se non sarebbe ben più lungimirante per il futuro della regione creare delle selezioni diterroir specifici, piuttosto che selezioni grandi (o grosse?) che rischiano di apparire apolidi, fuori tempo massimo, senza benefici effettivi per l’intero sistema.
  • Mi piacerebbe assaggiare vini altoatesini con un di più di spontaneità, con appena un po’ di leggerezza, per provare a intercettare quei tanti appassionati, spesso i più smaliziati, che considerano i vini regionali incapaci di spiazzare, scuotere, emozionare. Basterebbe poco, in fondo. O forse troppo, chissà.

  • Alle future sottozone in Alto Adige credono in pochi. E chi ci crede è deluso dal percorso (tortuoso in verità) su cui si sta sviluppando la definizione delle aree viticole. Un progetto che pare avere più a cuore le esigenze di mercato delle singole (grandi) cantine che non il terroir.
  • Le selezioni riservate alla menzione di “Vigna”– prodotte a partire da “Climat” storici e/o di lunga tradizione – vanno gradualmente aumentando, ma anche lì con criteri non sempre chiarissimi. Ad esempio, sarebbe opportuno che ci fosse chiarezza su quali vitigni puntare nei singoli vigneti delimitati, invece non mancano casi in cui nello stesso vigneto si possano valorizzare fino a quattro/cinque varietà tra loro parecchio differenti.
  • La Schiava continua inesorabilmente a diminuire perfino nei luoghi a lei più congeniali. E questo dalla seconda metà degli anni Ottanta in poi, dopo la crisi del 1983. Ai ben noti problemi commerciali si affiancano quelli sanitari, con la Suzuki sempre in agguato nelle giornate autunnali molto calde. Pare infatti che il parassita Drosophila Suzukii Matsumura adori svernare al riparo dell’ombrose pergole soprattutto nelle stagioni umide e che trovi buoni presupposti sulla buccia sottile dell’uva. Un vero peccato, perché appare evidente come una gestione agronomica avveduta (scongiurando rese troppo alte) e un’enologia sensibile alla fragile eleganza del vitigno, possano andare in direzione di rossi realmente montanari e quanto mai contemporanei, di beva frugale ma non scarna, che a tavola funzionano alla perfezione.
Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


LEGGI ANCHE