Verdicchio: né di destra né di sinistra, solo buono4 min read

Ho aspettato alcuni giorni prima di scrivere qualcosa sui due giorni passati a Cupramontana, il 5 e 6 ottobre, durante la festa dell’Uva (a proposito….75° edizione, mica bruscolini) e culminati con i due laboratori sulle annate storiche di Cuprese e sulle differenze tra verdicchi della riva destra e sinistra dell’Esino.

Questo perché  volevo provare a non essere così scontato da fermarmi all’unica constatazione ovvia che si poteva fare dopo aver degustato, assaggiato bevuto Verdicchio per due giorni e cioè che è un grande e assolutamente misconosciuto vino-vitigno.

Purtroppo il tempo non mi ha “portato consiglio” e quindi non posso che confermare quanto sopra.

Voi dite che ho scoperto l’acqua calda? In effetti l’ ho scritto varie volte e lo ripeto da tempo ma quando hai di fronte annate del Cuprese di Colonnara fino al 1988 (1985 per alcuni fortunati) che mostrano ognuna grande complessità e profondità al naso, freschezza, eleganza e addirittura giovinezza al palato non puoi dire altro. Il bello è che questi vini non vengono venduti a cifre superiori a 100€ ma inferiori a 10!

Se qualcuno mi mette davanti un vitigno autoctono italiano che può presentare 15-20 produttori con annate VALIDE in cantina che vanno indietro di almeno 20 anni mi mangio il cappello”. La frase è virgolettata ed in corsivo in quanto è stato un mio pensiero durante la degustazione di confronto tra vini della riva destra e sinistra dell’Esino . Di scena erano 7 (Bucci, Bonci, Garofoli, Coroncino, Pievalta, Brunori e San Lorenzo)aziende con vini dal 2000 al 2004 e il bello era che nessuno pensava fosse una cosa meno che normale. Tutti davano per scontato ciò che scontato non era e cioè che la longevità del verdicchio è un qualcosa che lo differenzia e lo mette forse (ma non dal punto di vista commerciale….) davanti a molti se non a tutti i bianchi autoctoni italiani. A quel punto ho fatto un rapido calcolo mentale ed in poco tempo ho messo in fila quasi venti cantine che possono mettere in campo tranquillamente vecchie annate. Così ho fatto il mio bel pensierino.

Nel frattempo il laboratorio sulle differenze andava avanti e più andava avanti e più mi convincevo che non era quello il modo per marcare le diversità. Forse sarebbe meglio partire dai terreni, vederne la struttura, le diversità  e poi confrontarli con i vini che vi nascono. Meglio ancora sarebbe prendere in considerazioni per questi confronti non i vini importanti ma quelli base, dove la mano del produttore non cerca ancora di imporre un suo stile.

A proposito di imporre uno stile, il motivo principale dei miei due giorni a Cupramontana era di incontrare  Carlo Pigini, enologo di Colonnara, per chiedergli lumi su una serie di profumi che sempre più verdicchi ( anche i suoi negli ultimi anni..) stanno mostrando.

La mia domanda  è stata questa “Sarà o non sarà merito della vinificazione in riduzione e/o assenza di ossigeno e della fermentazione a temperature più basse se sempre più verdicchi profumano di sauvignon, in particolare neozelandese?”

Le risposte avute mi hanno chiarito molti dei dubbi (non tutti però..) ma hanno aperto anche un bel problemino per il futuro di questo vino. Se è vero che la tradizione è fondamentalmente un cambiamento che ha avuto successo, resta il fatto che sempre più il consumatore del  verdicchio dovrà fare scelte  tra due tipologie di vini, quelli con fini e tenui profumi diciamo “classici” e quelli con tonalità fortemente sauvignoneggianti, arrembanti, piacione e quindi  (come mi hanno confermato alcuni tecnici) più facilmente vendibili.

 Mentre il nuovo sostituirà il vecchio il Verdicchio si ritroverà ad avere così due famiglie di aromi  primari completamente diversi gli uni dagli altri.

E se le gamme “New Zealand” prenderanno il sopravvento chi controllerà che anche il ventre molle di questo vino, quello imbottigliato fuori zona (circa il 40%, mica noccioline!) assuma solo con questa tecnica  i suoi profumi?

Insomma una tecnica di cantina del tutto lecita, innovativa e sicuramente “marketing oriented” rischia di trasformare il Verdicchio in un vino “dell’altro mondo”. Se tutti, produttori, consumatori e  critici sono d’accordo non ci vedo problemi, basta che nessuno inizi a fare il furbo e camuffi una cisterna di Sauvignon per una vinificazione in riduzione.

A questo punto,  vista la particolare predisposizione del Verdicchio alla “trasformazione aromatica”  dopo essere stato vinificato  in riduzione,  sarebbe il caso che le commissioni tecniche e la Camera di Commercio di Ancona, prendessero chiaramente posizione o magari i produttori sentissero il bisogno di far sapere in retroetichetta il tipo di fermentazione utilizzata.

Nel frattempo io mi butto sul verdicchio “old style”, sapendo di cascare comunque bene.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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