Se un giorno qualcuno volesse scrivere un giallo ambientato sulle meravigliose colline della Rufina potrebbe intitolarlo , parafrasando Agatha Christie, “Dieci piccoli viticoltori”.
La trama, ispirata a fatti reali, la fornisco io e potrebbe essere più o meno questa: quando il Consorzio X decide di usare lo stesso nome per un vino che il Consorzio Y aveva per primo creato e pubblicizzato, i dieci piccoli viticoltori della Rufina si trovano ad un bivio: seguire la strada scelta dal Consorzio X oppure cercarne una propria?

Decidono per la seconda opzione e qui iniziano i problemi sia perché il Consorzio X non è proprio felice della scelta, sia perché la burocrazia italica e europea mette lacci e laccioli difficilmente superabili.
Così la strada che porta i dieci piccoli viticoltori a creare un loro marchio è lastricata dei cadaveri dei loro fegati, troppo provati da stressanti dimostrazioni di pazienza, dei loro polmoni, caduti esausti dal troppo cercar di spiegare giuste ragioni e last but not least, anche, in parte, dal cadavere della lingua italiana.
Ma questa storia, al contrario dei gialli della grande scrittrice inglese, ha una fine lieta e piacevole: l’abbiamo scoperto il 23 settembre, quando i dieci piccoli viticoltori , alias produttori del Chianti Rufina (che dieci non sono ma venti) hanno presentato a noi di ASET il progetto Terrælectae, cioè un vino che è un Chianti Rufina Riserva ma si posiziona de facto sopra a questa tipologia, che nasce da singolo vigneto aziendale ed è fatto dal 100% di sangiovese.

Praticamente il modo di intendere e proporre il concetto di Gran Selezione da parte dei produttori del Chianti Rufina.
Hanno presentato il progetto alla Villa di Poggio Reale a Rufina, affiancandolo con una piacevolissima degustazione dei primi nove vini che possono vantarsi di questo marchio, tutti dell’annata 2018.
Un progetto che per i venti produttori del Consorzio Chianti Rufina diventa fondamentale per innalzare il livello percepito dei loro vini, grazie ad una punta di indubbio valore che può confrontarsi con qualsiasi grande rosso da invecchiamento italiano e mostrare altresì caratteri di unicità territoriali spiccati.
Lo anno dimostrato i nove vini in assaggio, senza dubbio dotati di corpo e potenza ma anche evidenziando logiche differenze e unicità dovute alle altezze , alle esposizioni e ai terreni dei rispettivi vigneti.

Infatti mano a mano che si dipanava la degustazione, oltre a constatare la qualità media molto alta dei vini, due cose mi hanno colpito: da una parte le notevoli diversità tra vino e vino, segno che ogni produttore declina al meglio ciò che ha e non cerca di ispirarsi a un’idea di vino che riuscirebbe solo ad “annacquare” il progetto. Dall’altra ho notato l’assenza (in parte) di quella freschezza che in passato ha sempre contraddistinto i Chianti Rufina: ragionandoci sopra però dall’annata 2018 non ci si poteva certo aspettare austerità e acidità alte e quindi alla fine questa “mancanza” gioca a favore dei produttori, che non hanno cercato di estorcere dai vini caratteristiche che, nel 2018, difficilmente potevano avere.
I Chianti Rufina Riserva Terraelectae sono buoni ma pochi, in quanto in diversi casi si parla di qualche centinaio di bottiglie, che sicuramente cresceranno nei prossimi anni. Del resto alla Rufina, con nemmeno 750 ettari di vigna si producono quasi 3 milioni di bottiglie e quindi è logico aspettarsi una produzione molto limitata per il top di gamma, con prezzi che si posizionano in enoteca tra i 35 e i 45 euro. Tra l’altro è interessante notare che ogni produttore della Rufina che aderirà al progetto potrà mettere in commercio un solo vino ad annata con quel marchio e questo, oltre a lasciare maggior spazio al Chianti Rufina Riserva, depone a favore dell’unicità dei vini che entreranno in commercio.

Il consiglio futuro è di aspettare con attenzione i terraelectae 2019, figli di una vendemmia (se la grandine non c’ha messo lo zampino) nettamente superiore alla 2018.
Prima ho parlato della morte della lingua italiana: in effetti il termine Terraelectae, mutuato da latino, mi convince molto poco, perché non sarà facile, per chi non ha una minima infarinatura latina, pronunciarlo correttamente. Capisco che sono un vecchio brontolone e che la scelta del nome è dovuta passare tra i mille lacci e lacciuoli della burocrazia, però continua a sembrarmi di “difficile digestione”.
Se il nome non è un granché per fortuna i vini sono buoni e questa è la cosa, alla fine, più importante.