Stampa estera a portata di clic: La Revue du Vin de France, n.6409 min read

In copertina: una bottiglia di Chambertin grand cru del Domaine Armand Rousseau, icona della Côte d’Or, annuncia i “60 crus che danno fama alla Borgogna”. Poi i vini “di luce” della Provenza, il terroir unico dello Château Grillet, un’inchiesta sull’attrazione fatale degli imprenditori per il mondo del vino, il clima e gli insegnamenti della preistoria sul riscaldamento climatico.

Nella parte alta della copertina sono i titoli “minori”: i supersugheri di Amorim, la pace di Châteauneuf-du-Pape, Guigal, il “caso” dell’AOC Bourgogne. Amorim è il destinatario della grande intervista di questo mese: il tema, come i sugheri hanno vinto la loro battaglia contro il sapore di tappo. La pace di Châteauneuf-du-Pape è quella raggiunta, dopo 25 anni, con i produttori dei comuni satellite della grande appellation del Sud del Rodano. Se ne parla nella sezione dedicata alle notizie, così come del caso AOC Bourgogne: superata l’impasse, ma non l’allarme sulla definizione delle aree ammesse.

C’è molto altro, ma vi farò solo un rapido cenno: mi soffermerò invece un po’ di più sui servizi dei due titoli in maggiore evidenza: Borgogna e Provenza. Della Borgogna parlano Roberto Petronio e Jean-Emmanuel Simond, nella prima (e unica) grande degustazione della sezione dedicata della rivista. Dopo una introduzione molto sintetica, accompagnata da due cartine schematiche, nelle quali sono riportati i climat inclusi nella trattazione, seguono una serie di schede abbastanza succinte di descrizione e l’indicazione di alcuni produttori che vi producono proprie etichette.

Devo confessare che non ho del tutto compreso i criteri della scelta (che non include lo Chablisien e le regioni a sud della Côte d’Or) effettuata da  Petronio e Simond. Essa comprende infatti non soltanto grands crus (peraltro non tutti), ma anche molti premier cru. Tra i primi ci sono alcuni grandi esclusi, come Charmes-Chambertin e Mazoyères-Chambertin, i soli due (dei 9) di Gevrey-Chambertin bocciati, e La Grande Rue, unico tra i grands crus di Vosne-Romanée. La giustificazione? I primi due climat darebbero vini eccelsi solo in alcuni Domaines, ma non sarebbero sempre all’altezza di un grand cru in altri casi. Quanto a La Grande Rue, che è un monopole, agli autori sembra che il suo unico produttore non abbia ancora trovato la giusta misura per il suo vino.

Senza  voler alimentare la perenne diatriba sulla gerarchia dei grands crus della Côte d’Or, che ha origini molto lontane, e fatta salva la legittimità per gli autori  di scegliere i  vini che  ritengono migliori in base al proprio  gusto, mi limito ad osservare  che gli argomenti  adottati per queste esclusioni mi sembrano  essere solo in parte  condivisibili e poco “borgognoni”: questi ultimi, infatti, si basano non solo sui risultati attuali  (ovviamente non di una singola annata e in produttori diversi), ma anche sulla tradizione storica e soprattutto sulle potenzialità del terroir. Sembrerebbe invece che a decidere sia stata soprattutto la valutazione dell’assaggio quasi esclusivo (con poche eccezioni) di una sola vendemmia, la 2018, unanimemente ritenuta molto buona, ma anche tra le più atipiche della storia della Borgogna. Vanno inoltre considerate le condizioni molto eterogenee di degustazione: effettuate in tempi diversi, nell’arco di un anno e mezzo, in parte durante visite ai produttori e in parte sulla base di doni ricevuti da “generosi amatori”.

Per andare nel merito si potrebbe  obiettare  che il  Clos  des Lambrays,  incluso- a mio parere giustificatamente-  nella classifica dei due autori,  non era considerato dalle fonti classiche (come Lavalle) all’altezza di “Têtes de cuvée”  come lo Chambertin e il Clos de Bèze,  ma solo una Première cuvée (al pari di altri grands crus di Morey-Saint-Denis, come  il Bonnes Mares  e il Clos de la Roche) . Ottenne il riconoscimento di grand cru,  quasi 40 anni fa, grazie ad alcune annate eccezionali del passato (‘45-‘47-‘49) più che per gli  assaggi più recenti:  per un lungo periodo ha avuto  una storia di assaggi non di vertice, prima di raggiungere l’attuale splendida regolarità sotto la sapiente conduzione di Thierry Brouin.

E che dire ancora dell’ Échezeaux, il più grande per estensione della Côte de Nuits, dopo il Clos de Vougeot , un climat nel quale  molti vini prodotti  sono ben lungi dal raggiungere  il livello dei migliori premier cru di Vosne-Romanée? Non a caso Lavalle non includeva nessuno dei suoi sous-climats tra le têtes de cuvée, riconoscimento che era attribuito soltanto a Les Grands Echezeaux. Ciò che è ancor più significativo, da alcuni è talvolta commercializzato “declassandolo” (solo nominalmente) come Vosne-Romanée Premier Cru, denominazione dotata di maggior prestigio e affidabilità.

Nello stesso Clos de Vougeot tutti sanno che le versioni ricavate dalle parcelle più basse adiacenti alla Route Nationale distano anni luce da quelle migliori.  Échezeaux e il Clos de Vougeot, per la loro estensione e per il grandissimo frazionamento della proprietà, sono in effetti molto eterogenei da settore a settore e da un produttore all’altro, pur contenendo al loro interno alcuni gioielli ben meritevoli di far parte della selezione dei migliori. Essi perciò  ricadrebbero , forse anche in misura maggiore, nei criteri che hanno motivato la bocciatura dei due grands crus di Gevrey.

Quanto a La Grande Rue,  un piccolo monopole di Vosne-Romanée,  a mio parere un po’ troppo severamente declassato da Petronio e Simond, incastonato com’è  tra La Tâche, Les Richebourg, Romanée-Saint Vivant , La Romanée-Conti e La Romanée, possiede un suolo che, per natura e posizione, non avrebbe potenzialmente molto  da invidiare ai suoi grandi vicini. Di più, la qualità dei suoi vini appare    in notevole e costante ascesa negli ultimi anni, come testimoniano anche grandi esperti di vino borgognone come Allen Meadows e il nostro Armando Castagno.  Per quanto concerne poi  i Premiers crus promossi nell’empireo della RVF, ve ne sono alcuni -come il Clos Saint-Jacques, Les Amoureuses e Malconsorts- da sempre ritenuti facenti parte dell’elite (lo era un po’meno il Cros Parentoux, il cui successo è più recente e molto legato al mito di Henri Jayer)  che  continuano a rivelarsi di grandissimo spessore, ma per altri vi sarebbe certo minore unanimità: per es. La Richemone e Les Vaucrins, a Nuits-Saint-Georges appaiono premiati più dalla bravura e dall’impegno di singoli produttori eccellenti. Considerando ora la Côte de Beaune, a parte i grand cru (sui vini di  Corton si potrebbe forse discutere al pari dell’Échezeaux e del Clos de Vougeot), la scelta dei premiers crus da inserire nell’Olimpo non manca di suscitare qualche ragionevole dubbio: ad es. Santenots è davvero meritevole di far parte del gruppo dei più grandi cru di Meursault, al pari di  Les Perrières e Le Genevrières? E anche a Volnay, il Taille Pieds, a parte gli splendidi vini prodottivi dal Domaine De Montille  e dal Domaine Marquis d’Angerville, davvero merita di stare in classifica al posto di Champans?

Per quanto riguarda poi la scelta dei produttori premiati, infine, vi sono diversi grandi assenti che avrebbero ben meritato di far parte del gruppo dei migliori per i territori presi in esame : la più eclatante è quella del Domaine Bouchard Père et Fils, proprietario della più grande collezione di grands crus e premiers crus della Borgogna, e che, a mio personale giudizio, avrebbe  potuto essere citato almeno per due dei suoi vini-icona: lo Chevalier-Montrachet La Cabotte e il Beaune-Grèves Vigne de l’Enfant Jésus.

Ho anche provato  una certa sorpresa nel constatare che  non sia citato tra i migliori Clos de Vougeot il Vieilles Vignes dello Château de la Tour, l’unico ad essere vinificato all’interno del Clos, che per posizione e regolarità risulta puntualmente tra i migliori. Per concludere,  non appare  chiara neppure la successione dei climats inclusi  nel servizio: non risponde con coerenza a un ordine geografico (si parte infatti dal Clos de Bèze, dal Musigny e da  Les Amoureuses “in copertina”, per passare poi  a Vosne-Romanée con Romanée-Saint Vivant, quindi risalire  a Gevrey-Chambertin, e  a Morey-Saint Denis , infine   scendere di nuovo a Vosne-Romanée), né gerarchico (grands crus e premiers crus sono infatti abbondantemente mescolati tra loro) né in base a una valutazione gustativa (manca infatti qualsiasi punteggio) o di costo.

Eccoci alla degustazione dei “vini di luce” della Provenza, un territorio che avrebbe, secondo l’autore del reportage, Alexis Goujard, tutti gli atouts per diventare “di culto” eppure non ancora amato come la Valle del Rodano o quella della Loira. Forse a causa dell’essere troppo legata all’immagine dei suoi rosé, che oscurano la qualità dei suoi (rari) bianchi e rossi? L’articolo di Goujard non è una degustazione sistematica, ma una scelta dei vini che meglio rappresentano, per l’autore, la grande diversità dei suoi terroirs e la ricchezza di varietà poco conosciute. Venti i vini selezionati: cinque sono dei rossi di Bandol (tra cui una rara cuvée di Tempier del 1998 ormai introvabile) e c’è poi un rosé dello stesso terroir escluso dall’appellation dal comitato di assaggio, L’Irréductible  del Domaine La Bégude. Tra gli altri  vini  c’è il Palette blanc dello Château Simone (blend di clairette, 80%, bouboulenc, grenache blanc, ugni blanc  e muscat in parte “en complantation”), il delicato cassis del Domaine du Bagnol ,  il rosso “eretico” del Domaine de Trévallon (cab&syrah) e alcuni vini atipici legati alla valorizzazione di antiche varietà locali, come la Cuvée spéciale du Millénaire di Clos Cibonne,  100% tibouren, il nostro rossese, che oltreconfine è solitamente vinificato in rosé in assemblage con le altre varietà della zona ( grenache, cinsault e altre). Anche questo é un rosé, ma in purezza, proveniente da vigne ultracinquantenarie e vinificato con tecniche agli antipodi di quelle moderne:  da aggiungere, della vendemmia 2000 e ancora in gamba dopo venti anni. Segnalo anche il Bellet Le Clos del Clos Saint-Vincent, a base di braquet, sì, il nostro brachetto, vinificato in rosa, da uve coltivate in biodinamica sulle colline di Bellet, e infine il carignan “en grappes entières” di Myrko Tépus , il Nitchivo, prodotto sui   coteaux di Verdon: vecchie viti di sessant’anni  su un declivio esposto a sud.

Gli altri articoli: dopo l’editoriale di Saverot , inneggiante all’audacia (quella che mancherebbe all’INAO), e l’intervista ad Amorim, di cui si è già detto, il report di Corinne Lefort sul riscaldamento globale e gli insegnamenti  delle precedenti ere climatiche, la visita di Casamayor al Domaine Guigal e la verticale di Château d’Ampuis dal 2005 al 2016 (grandi 2005 e 2007), il “duo” di St.Chinian (Domaine Canet Valette e Les Éminades) raccontato da Petronio, gli accordi enogastronomici di Olivier Poussier (fegato di vitella) e Olivier Poels (sella d’agnello di Alain Pégouret e coteaux champenois ). Infine l’interessante profilo di Sophie de Salettes della AOC lillipuziana dello Château Grillet, monopole dell’omonimo domaine, già proprietà della famiglia Neyret-Gachet da numerose generazioni, recentemente acquistato da Arthémis e François Pinault. Solo 3,8 ha. ripartiti tra i comuni di Saint-Michel- sur-Rhone e Vérin, 40 km. a sud di Lyon, gioiello consacrato al viognier. Poi le solite rubriche e la “bouteille mythique” (Arbois Pupillin Vin Jaune 1886 della Maison Pierre Overnoy) .

Guglielmo Bellelli

Nella mia prima vita (fino a pochi anni fa) sono stato professore universitario di Psicologia. Va da sé: il vino mi è sempre piaciuto, e i viaggi fatti per motivi di studio e lavoro mi hanno messo in contatto anche con mondi enologici diversi. Ora, nella mia seconda vita (mi augurerei altrettanto lunga) scrivo di vino per condividere le mie esperienze con chi ha la mia stessa passione. Confesso che il piacere sensoriale (pur grande) che provo bevendo una grande bottiglia è enormemente amplificato dalla conoscenza della storia (magari anche una leggenda) che ne spiega le origini.


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