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Chissà perché pochi istanti possono lasciare un sapore eterno*.

  C’è una Valle della Loira della quale hanno parlato ai nostri riguardi di lettori; un fiabesco distretto di castelli e di vinelli, di  fûtreau e di rilettes, di François Rabelais e Pierre de Ronsard, di Giovanna d’Arco e Leonardo da Vinci. Una Loira che è a tutti gli effetti metonimia francese –  l’aristocrazia, l’architettura, l’arte, le rivoluzioni, il vino: dici Francia e pensi a tutto questo. Una Valle culturale, pubblicitaria, turistica, laudativa, di vini rassicuranti e di souvenir comprati fra Tours e Angers.

E c’è una Loira vissuta, frequentata, annusata nelle strade e per i vicoli delle sue città e dei suoi villaggi, che invece lascia un sapore più forte al viaggiatore scouter, e insieme la sensazione che la cultura francese abbia trovato nell’autorappresentazione letteraria non solo il proprio tratto distintivo, ma anche la propria prigione.

Certo, i castelli meritano una deviazione: sono spesso prodigiosi e formano una catena pressoché ininterrotta dall’est di Orléans fino all’ovest di Angers: alcuni sono sperduti lontano dal corso della Loira, oppure sorgono sulle sponde dei suoi affluenti: lo Cher attraversa il magnifico castello di Chenonceau; il Cosson fiancheggia la fortezza più grande, Chambord; l’Indre è abbellito dall’incanto rinascimentale di Azay-le-Rideau.

Rabelais

Ma la Loira che mi è rimasta nel sangue è soprattutto altra. E se, come credo, è la letteratura a nutrirsi della vita e non viceversa, allora sarà meglio osservare quanto è più varia e più interessante la regione rispetto allo stereotipo pur lusinghiero nel quale è ingabbiata.

Quei posti lungo il grande fiume sono pieni di smorfie e di colori, hanno qualcosa di storto, di carioca, hanno battiti e cadenze di suono. Così il mio ricordo più forte non sono i manieri sontuosi, ma gli aspetti più sensuali. I capricci del fiume, ad esempio. In estate il suo corso smagrisce e si disperde in ruscelletti che si insinuano tra lingue di sabbia e isolotti; invece in autunno le piogge possono gonfiarlo a dismisura, rompendo gli argini, che pure sono robusti. La brezza. Vento lieve che ti accarezza come fosse la voce di Greg Gonzalez. Gli odori. Profumi che sanno di un fiore che in natura non esiste: è solo nel naso degli Chenin d’autore. E il cielo. Che in primavera è di un azzurro così luminoso da apparire feroce.

Gli abitanti del posto tuttavia di feroce non hanno nulla: tutt’altro. Ho sempre incontrato persone affabili, gentili, più aperte ed estroverse della media francese, che conoscono le regole dell’ospitalità. Siamo a nord d’Europa, ma è un nord dai tratti sfumati, pacifici, che pongono questi luoghi in un limbo senza confini.

Accanto alla Loira aristocratica e turistica c’è dunque una regione imprevista, disinvolta, che incanta per i silenzi animati; dove la gente si diverte fino a tardi, ma senza disturbare; dove si bevono vini alternativi in locali semplici, senza fronzoli.

Da quelle parti c’è un edonismo morale che mi piace. E anche un vitalismo simpaticamente picaresco, un po’ gallico e un po’ latino, che mette il buonumore.

Lo stesso sapore, da ricordare a lungo, mi ha lasciato la scorpacciata di vini ligerien bevuti durante Loira & Co. lo scorso 21 maggio a Modena, evento impeccabile organizzato da Club Excellence e da Lorenzo Righi.

Nell’occasione ho condotto insieme al bravissimo Filippo Marchi un laboratorio di degustazione in una sala gremita di colleghi attenti e collaborativi. In sala c’era anche l’assaggiatrice e la creatura che più adoro al mondo: una sorpresa che mi ha fatto felice. E gli importatori Luca Cuzziol; Pietro Pellegrini; Gianpaolo Girardi (Proposta Vini); Mario Galleni e Leonardo Stelloni (Teatro del Vino); Christian Bucci (Cave de Pyrene).

Durante la mia finestra di approfondimento ho provato a raccontare una Loira capovolta anche nel vino. Altro che vinelli senza carattere, spumanti cadetti, rossi vegetali o vini dolci dimenticati.  Dai Muscadet dei Pays Nantais golosamente aperitivi agli Chenin Blanc angevin (secchi o dolci) di esplicita vocazione all’invecchiamento; dai raffinati Cabernet Franc del Saumurois e della Touraine ai vibranti Pinot Noir di Cheverny; dal celebre Sauvignon Blanc allo sconosciuto Arbois; dallo spensierato Gamay du Forez ai salati Vouvray e Montlouis (secchi, semi-dolci, dolci); dall’intenso Romorantin all’aereo Pinot d’Aunis, non c’è idea di vino che non abbia qui la sua versione di riferimento.

ph© elisabetta baracchi

Non solo. Ogni viaggiatore che si interessi al liquido odoroso in Loira troverà oggi tante magnifiche proposte a prezzi democratici. La stessa Borgogna, con un centinaio di denominazioni di origine e una frammentazione ancor più minuziosa, non potrebbe rivaleggiare in diversità e economicità con questo enorme distretto che ospita tanti bravi vignaioli di nuova generazione in grado di mettere insieme vini classici e vini con una valenza per così dire sperimentale.

Un distretto strampalato, con settantamila ettari vitati, più di  sessanta denominazioni d’origine, un’irritante babele di variazioni sul tema, quattro regioni amministrative, cinque grandi comprensori, un articolato reticolo di suoli e di vitigni, ben ottocento chilometri di Strade del Vino e migliaia di produttori.

Strampalato ma pieno di invenzioni e come ispirato a una sorta di creativa teatralità, nel quale i vini migliori, che non sono per forza i più ambiziosi né tantomento i più blasonati, fanno dialogare pancia e cervello. Li bevi e sorridi.

La Loira può dare vini grandi, mai grandiosi, mai impettiti, mai veramente austeri. Non c’è nulla di regale in essi. Anche le bottiglie davvero eccellenti sono spontanee, divertenti, singolari.

Forte di una plurisecolare vocazione territoriale, l’intera zona è in grado di sorprendere l’appassionato perfino nelle AOC meno note e nelle tipologie più aleatorie, offrendo all’assaggiatore colto la più brillante delle prove d’esame.

Nonostante la varietà e la complessità, le appellation e i terroir del bacino idrografico della Loira meritano di essere raccolti in un’unica regione vinicola: il fiume è una grande mamma che col suo cordone ombelicale nutre vini dotati di una qualche somiglianza di fondo: sono tonici, freschi, gastronomici, originali.

Durante il banco d’assaggio modenese ho bevuto vini di inarginabile espressività, dal carisma che non penalizza la beva, e dalla beva che non ridimensiona la complessità .

Vini di luce, in cui la luce ha un ruolo aromatico e non alcolico, che mette le ali ai terpeni, ai norisoprenoidi  e a tutti quegli elementi che contribuiscono all’odore di un vino. Vini minerali, ma nell’accezione più verticale del termine: sali che qualificano gli elementi gustativi, allungano il sorso, ricamano la persistenza, reclamano la pietanza.

Colpisce anche la profonda sintonia che l’intera vallata, da Saint-Nazaire al Mont Gerbier, sembra mostrare con molti degli aspetti considerati a vario titolo imprescindibili alla sfida del vino contemporaneo: territorialità e artigianalità, vigne mature e terreni (anche) di origine vulcanica, personalità e originalità espressiva, verticalità e salinità, trasparenza e originalità, versatilità negli abbinamenti a tavola e prezzi onesti.

Non basta. <<La Valle della Loira sta vivendo da anni un rinnovato slancio verso una viticoltura pulita. I numeri del biologico certificato ne sono una testimonianza: dall’alto corso fino alla Vandea, questa è l’area con più ettari bio tra tutte le regioni settentrionali; più del doppio sia della Borgogna, sia dell’Alsazia, per non parlare della Champagne>> (Loira, François Morel, traduzione di Samuel Cogliati, Possibilia Editore>>.

Sappiamo bene che dagli anni Sessanta del Novecento in avanti si apre un solco abissale nella storia dell’agricoltura, in Francia come nel resto del mondo. Il suolo cessa di essere un organismo vivente da rigenerare continuamente e diventa il supporto neutro di un’attività di estrazione industriale di merci. Così i terreni, a furia di concimazioni di sintesi vengono privati del loro equilibrio naturale, ammalandosi con facilità. Per questo il ricorso ai pesticidi diventa sempre più una necessità, eliminando anche quegli organismi utili che un tempo svolgevano un ruolo rilevante nella lavorazione del terreno, nella sua porosità e verticalità, nonché nella difesa naturale delle piante.

Non è un caso se è la Loira la sorgente enoviticola e intellettuale che dal 2001 alimenta il grande bacino del movimento naturale, grazie al lavoro di divulgazione di Nicolas Joly, portavoce mondiale della biodinamica nel vino. E con lui, nel solco di Chauvet, Lapierre, Beaufort e di altri pionieri del vino bio francese, un numero sempre più cospicuo di interpreti artigiani e creativi di Loira sono nel taccuino degli amatori.

In ordine casuale cito Jean Marie e Thierry Puzelat, Guy Bossard, Jo Landron, Jean Pierre Robinot, Patrick Baudouin, René Mosse, Nicolas Reau, Jo Pithon, Philippe Foreau, François Chidaine, Nady Focault, Mark Angeli, Eric Nicolas, Eddy& Mileine Oosterlinck-Bracke, Frantz Saumon, Antoine Sanzey, Pierre Breton, Philippe Alliet, Thierry Germain, Jean Pierre Chevalier, Philippe Delesveaux, François e Pascal Cotat, Sèbastien Riffault, Gérard Boulay, Alexandre Bain, Jonathan Pabiot, Frederic Mabileau, Richard Desouche; e ne mancano tanti che faranno strada. Un plotone pacifico di uomini e di donne che per un positivo effetto di emulazione stanno incendiano la Loira del vino di qualità.

Eppure, se la regione appare cambiata radicalmente rispetto a quindici anni fa, va detto che le carte dei ristoranti e gli scaffali delle enoteche italiani registrano forse con eccessiva prudenza questi rivolgimenti; se negli ultimi due lustri le gerarchie del vino di Loira sono state oggetto di una profonda ristrutturazione, ancora poco di questi mutamenti viene percepito dagli operatori, che invece rimangono affezionati soprattutto ai territori francesi più celebri, Borgogna e Champagne in particolare.

Un motivo in più per ringraziare il Club Excellence, Lorenzo Righi, Filippo Marchi e i Sommelier dell’Onav del lavoro svolto, auspicando che l’evento possa avere cadenza annuale e una frequentazione ancora più robusta.

La Loira non è un bluff, ma una delle regioni del futuro, pregna di un’entusiasmo che profuma di vita.

 

*Diomama.

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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