La meravigliosa “Fabbrica del cioccolato” per gli amanti delle bollicine9 min read

Potrebbe sembrare irriverente paragonare una casa spumantistica ad un geniale parto della fantasia umana ma se ci penso bene tutte le volte che sono entrato da Ferrari mi sono sentito un po’ come Charlie, il ragazzino che vince il biglietto per visitare la fantasmagorica Fabbrica del cioccolato.

Certo che i paragoni con la bellissima ma  misteriosa (in qualche caso anche pericolosa) fabbrica di Willy Wonka finiscono appena entrati,  sia perché dentro Ferrari non ci sono misteri o pericoli (a parte quello reale di bersi qualche calice in più) sia perché anche in questa occasione il nostro Virgilio è stato Ruben Larentis.

Ruben è l’enologo di Ferrari praticamente da sempre ed è esattamente l’opposto del signor Wonka: tanto questo veste colorato, usa un linguaggio “effervescente” e ride in maniera spesso sguaiata, tanto Ruben veste “d’ordinanza”, usa un linguaggio preciso, equilibrato, e quando ride lo fa quasi in sordina, come se si scusasse.

Sotto comunque i suoi modi affabili e educati c’è una scorza granitica ed una serie infinita di conoscenze, che rendono una chiacchierata con lui uno dei modi più semplici e piacevoli per capire veramente qualcosa sugli spumanti italiani.

Volete una prova?  Parlando di pressatura ci ha stupito con: “Meglio una resa di 150 quintali ad ettaro ma pressati bene che 100 e pressati male”. Naturalmente stava esagerando per farci capire quando sia importante il momento della pressatura delle uve, quello in cui non si parla di “quanto” si estrae ma “cosa” si estrae.

Il discorso sarebbe lunghissimo e molto tecnico ma potrebbe essere spiegato con un’altra frase di Ruben: “Tanti enologi sono portati a estrarre di più per avere di più, ma ogni vino ha un suo limite e se lo superi il vino non ti perdona. Io sono dell’idea che, conoscendo le uve e le loro caratteristiche, meno metti e meglio è.”

Uno potrebbe pensare alla moda di fare i vini in “sottrazione” ma il concetto è un altro, perché stiamo parlando di vini spumanti, che sono molto ma molto diversi da un vino fermo.

Non si tratta di creare un vino e, dopo la fermentazione, seguirlo passo passo nella sua maturazione, ma di creare un bel “bruco” che metti in bottiglia dopo poco tempo e dopo molti anni e senza che tu possa più fare niente, si deve trasformare in una determinata farfalla. Un po’ come sparare ad un bersaglio molto distante e in movimento: devi mirare in un altro punto, sperando di aver fatto i calcoli giusti.

Facciamo un esempio per capirci: il Giulio Ferrari nasce sempre dalle uve di una serie di vigneti oramai definiti, ma mai dagli stessi e mai con le stesse percentuali: normalmente dopo la pressatura e la prima fermentazione la scelta è fra 20 vasche diverse e il Giulio nasce dall’assemblaggio di 10, massimo 11, tra queste, con magari un’aggiunta di una parte di vino  in tonneax dedicato in partenza ad altre etichette importanti. Ma qui si crea il bruco, ottimo quanto vuoi ma nessuno ti da la certezza che dopo 10 anni in una bottiglia, nasca una farfalla con le ali del colore che Ruben e Ferrari vogliono ottenere.

Gli chiedo se non prova ansia di fronte ai “milioni di bruchi” stoccati in cantina e soprattutto se non la prova nel momento in cui deve creare un nuovo bruco.

La risposta è chiara e venata di fatalismo:“Non mi creo ansia perché l’ansia non ti  permette di lavorare bene e poi una volta fatto è fatto!” Però è un fatalista che sa fare bene i suoi conti.

Lo scopriamo anche grazie alla degustazione che ci ha preparato. La prima parte dell’assaggio è dedicato alle ultime tre “annate” (lo virgoletto perché il vino è un blend di varie annate) del Perlé Zero. Ma prima di parlarvi dei vini eccovi la storia di come nasce questo spumante pas dosé.

“Lo Zero non poteva essere un Perlé non dosato, sarebbe stata una cosa scontata e banale, inoltre tanti vini semplicemente senza zuccheri hanno una rigidità che non porta a niente.” Dice Ruben e continua “L’idea finale è nata e si è sviluppata anche grazie ad un viaggio in champagne. Da Krug ho capito molto sugli assemblaggi  di varie cuvée, da Selosse mi ha colpito il suo sistema che ricorda un po’ il metodo Solera, da Bollinger ho capito l’importanza del sistema di invecchiamento del vino in magnum.”

Forte delle sue e di queste conoscenze ecco che nasce il Perlé Zero. viene vinificato una parte in botte grande, una parte in acciaio, poi i vini “si scambiano di posto”, passando dall’acciaio a al legno e viceversa perché un vino per la filosofia Ferrari no può stare due anni in legno, perché lo irrigidisce e lo rende pesante al palato. Ogni vendemmia aggiunge una piccola parte di vino nuovo per renderlo più giovane e complesso (ci dice –ma non credo sia vero- che non sa nemmeno lui quante annate ci siano dentro ai vari Perlé Zero) e dell’ultima vendemmia, prima di farlo rifermentare, ne aggiunge di più. Da qualche anno imbottiglia una fetta della “base” del Giulio Ferrari  in magnum a due atmosfere: nel momento dell’assemblaggio finale ne apre un certo numero, le aggiunge al vino e poi mette a rifermentare il tutto in bottiglia per almeno 5-6 anni prima di andare in commercio.

Tanto per farvi capire adesso hanno da parte per questi “blend” circa 20000 magnum. Quindi il Perlé Zero è un pas dosé senza annata, solo nella retroetichetta ha due scritte “messo in bottiglia il…” e “sboccato il…”

Abbiamo assaggiato le ultime due cuvée (che hanno come vino più giovane il 2010 e il 2011) in commercio e l’ultima (chiamiamola del 2012) semplicemente stappata senza aggiunta di solforosa.

Il “2010”, messo in commercio nel 2016 è dominato da note fruttate mature (pesca, albicocca), da leggere sensazioni mandorlate e da una piacevolmente accennata nota di vaniglia. In bocca grande acidità e freschezza, con una ferma pienezza.

Il “2011” invece è su toni molto più soffusi , floreali e vagamente speziati: Anche in bocca ha maggiore finezza del precedente, gioca più su una freschezza delicata, quasi sincopata ma mai cedevole, anzi.

Il “2012” è un puledro che scalpita: frutto giovanissimo, rotondità non cercata ma presente, potente dell’ostentata potenza dei giovani.

Questi tre Zero sembrano ancora lontani dalla loro perfetta espressione e allora cambiamo registro cercando vini non più maturi ma più vicini al punto di massima espressione.

Mi rendo infatti conto che la degustazione, guidata da Ruben e dai molti spumanti che ha ancora da proporci, non ci porta tanto alla ricerca del profumo x o y ma del “momento del vino”, quello in cui riesce a dare il massimo. Naturalmente per capirlo serve anche la persona che l’ha creato: servono le sue impressioni, quello che ha fatto allora e cosa si aspetta o si aspettava da quel determinato vino.

Seguendo questa traccia andiamo indietro di almeno 5-6 anni con una “orizzontale” della vendemmia 2006, composta dal Perlé Bianco, Perlè Rosé, Perlé Nero e Riserva Lunelli.

Il Perlé Bianco ti aggredisce quasi con note balsamiche e speziate al naso e in bocca sembra avere due velocità: sapido e potente all’inizio, si distende verso la fine in una chiusura lunghissima.

Il Perlé Rosé mi stupisce sempre e anche questo 2006 lo fa: naso quasi sensuale grazie ad una ciliegia matura accennata e sentori floreali, rotondo grazie ad una bollicina particolarmente setosa. Un vino che “si dissolve rimanendo.”  Qui devo dire che Ruben, sempre molto critico con i suoi figli, non riesce a trovargli difetti e soprattutto (al contrario del Perlé Bianco) lo vede pronto per essere bevuto.

Il Perlé Nero è, pieno zeppo di belle cose sia al naso (anche sentori minerali, lo posso dire?) che in bocca: molto complesso e opulento, profondo, ancora compresso e  sicuramente con un futuro notevole davanti.

Il Riserva Lunelli 2006 è il vino più austero, ancora molto ingessato dal legno sia al naso che in bocca: forse oggi sin dalla partenza nasce meno imbalsamato, anche se la tipologia ha comunque i suoi estimatori.

Quindi forse uno su quattro era espressivo al massimo delle sue possibilità: di quattro farfalle nate da altrettanti bruchi di 12 anni fa, solo una si è lasciata ammirare in tutta la sua bellezza. Naturalmente le altre farfalle sono di altissimo livello, ma tutti abbiamo pensato che potrebbero dare di più in tempi diversi, oppure non arrivare mai al massimo.

Del resto, come dice Ruben con tono quasi scherzoso “ Il grande vino è fatto di particolari, e un particolare non indifferente è il momento in cui lo bevi”.

Naturalmente non è finita qui perché nella ricerca “dell’attimo fuggente” (che in realtà può essere anche piuttosto lungo) non ci potevamo perdere farfalle nate da bruchi ancora più lontani nel tempo, come il Giulio Ferrari 2001, 1999 e…1993. Già vi vedo con le bave alla bocca…

Una frase di Ruben, che oggi sembra particolarmente in forma per coniare frasi lapidarie “Il vino è saper aspettare: il momento giusto per berlo è  quando lui si concede in maniera espressiva.” ci introduce a questi tre assaggi.

Il 2001 ha ancora note di frutta candita, di cedro, di agrumi che mostrano la sua notevole giovinezza, almeno al naso. In bocca si cambia registro e si passa ad una silente ma costante sapidità, ad una profondità notevole: un vino che ti percorre più volte la bocca ma in punta di piedi.

Il 1999 è meno lineare: in bocca si muove a scatti, senza mai prendere una strada precisa. Forse è la bottiglia o forse “l’attimo fuggente” è già passato.

Il 1993 è semplicemente incredibile! Ha ancora note di frutta secca e candita, mandorle e fico in evidenza. In bocca è ancora molto giovane, nervoso, con un corpo importante. E’ profondo e infinito in chiusura.

Per me il momento giusto del 2001 e del 1993 è un momento “flessibile”: non riesco ad immaginare quello in cui vireranno verso sensazioni più ombrose o minerali, quindi prendo per buono quest’attimo in cui ho degustato due grandi spumanti.

In realtà abbiamo degustato anche un altro spumante, buonissimo, ma Ruben mi ha guardato fisso negli occhi e ha sentenziato “Se parli di questo, che dovremo presentare tra pochi mesi, in Ferrari non ci rimetti piede”.  Io gli credo e quindi…

Veniamo al nocciolo del discorso: saper attendere è un concetto oggi sempre meno gettonato, anche nel mondo del vino. Da una parte si predica di dare al vino il suo tempo, dall’altra si mettono in commercio e si recensiscono il 99% di vini non pronti (non solo in Italia). Questa visita e questi assaggi  mi hanno fatto pensare che non siamo assolutamente, per dirla con Leibnitz, nel migliore dei mondi possibili, perché in quello tanti degli spumanti degustati entrerebbero in commercio adesso e sarebbero recensiti con maggiore cognizione di causa. Del resto, quasi in chiusura Ruben è tornato su un concetto detto all’inizio, ampliandolo: “Come detto sono convinto che “meno metti e meglio è” ma il rischio che corri è quello che un vino leggero diventi un vino banale:  giudicare fra un vino leggero e un vino banale non è facile, specie se li assaggi da giovani. eppure c’è una grande differenza, molto difficile da cogliere senza dare al vino il giusto tempo.”

Grazie Ruben, grazie Ferrari.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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