La guida per il Buon Vino12 min read

Carlo Macchi mi ha stimolato con due dei suoi ultimi articoli a scrivere ancora qualcosa che spero possa essere utile, sia perché farò delle considerazioni sui temi da lui citati, sia perché alla fine proporrò una nuova iniziativa editoriale a chi la voglia portare avanti, magari lo stesso Winesurf.

Gli articoli sono in ordine di uscita: “E se terroir si traducesse semplicemente in uomo” e “Coming out enoico di metà agosto” che vi invito a leggere se non lo avete ancora fatto.

Il tema è sempre più stringente e verte sulle basi che oggi servono per valutare o distinguere un vino di qualità; credo sia un problema che ci riguarda tutti, non solo i giornalisti. Degustare alla cieca non risolve il problema, perché, come sottolinea Carlo Macchi che cita Fernando Pardini, i condizionamenti rimangono non solo se c’è il Sassicaia in ballo, aggiungo io: bastano anche motivazioni e vini più banali, a volte volgari.

Lasciando pur da parte le fisime umane, fatto è che la forbice tra le valutazioni in chiaro o alla cieca che siano e il valore reale del vino è molto larga, forse mai come oggi è difficile capirci qualcosa.

Il vino che sa di vino

Dal punto di vista culturale, ci sono tanti tipi di vino: convenzionale, naturale, territoriale, e ogni degustatore ha una sua preferenza e una sua visione all’interno della tipologia che gli piace di più. Pur se è vero che il gusto è soggettivo, una oggettività al vino bisognerà pure lasciargliela e ripartire da questa se si vuole utilizzare un comune linguaggio e scala di valori. Questa problematica non è facile da risolvere, serve forse semplificare e andare all’essenza del vino.

L’uomo, dice Carlo nell’articolo con tema il terroir, ha oggi gli strumenti per incidere e smaneggiare notevolmente il vino al punto da sostituirsi al territorio. Gli esempi che fa sono molteplici: l’aroma del frutto della passione, il salato onnipresente o l’agrumato trasversale dell’ultima ora in tanti vini bianchi italiani. Potrei aggiungere a questi, i più datati e esotici sentori di ananas e di banana di tanti vini bianchi sardi che, se non bastasse, li si comunica con una ingenuità che ci è propria, in quanto ancora vige il retaggio positivistico, come studiati scientificamente e funzionali al gusto del mercato. Non è raro infatti nell’isola, anche in ristoranti di alta fascia, al pari di sbagliare la temperatura di servizio, si presentino al tavolo i vini come frutto di un progetto della cantina di provenienza, perché siano “lisci “, privi di spigoli senza nessuna caratterizzazione e per questo facili da bere e abbinabili con il cibo. Come dire, tra l’altro, il vino si fa in cantina.

A questo punto, visto il cambiamento climatico, meglio spacciarli per territoriali. In questo si nota una differenza di retroterra culturale tra chi sfrutta la leva del territorio “perché tira” e chi invece non sa neanche ancora di che si parla. Ma la sostanza, pur parlando culturalmente di due periodi storici diversi riguardo alla comunicazione del vino, è sempre la stessa: il tentativo del produttore e dell’intermediario nel mercato, di incontrare il gusto del consumatore proponendogli una bevanda ben fatta, studiata ad hoc, non importa se priva di anima.

Se ci pensiamo il mondo del vino sta attuando una specie di suicidio collettivo nel cercare di inserirsi nel mercato delle comuni bevande; il vino dealcolato è il punto d’arrivo di questa tendenza e di non ritorno. Basterà qualche generazione per cancellare la memoria del vino, in quanto ci sono bevande molto più consumabili e a più basso costo. Non ci resterà che musealizzarlo.

Eppure, lo sviluppo dei vini cosiddetti naturali, molto graditi dai giovani dovrebbe, come fenomeno, insegnare tanto. Se aggiungiamo il caso, secondo me eclatante, di un vino rosso in brik di altissima diffusione come il Tavernello, che oggi è molto più vinoso rispetto al fruttone-morbidone dei suoi competitor, è indizio che già l’industria ha capito tutto, ed è molto più avanti.

L’uomo ha un desiderio inconscio, potremo dire un bisogno ancestrale di vino che sa di vino.

Servirebbe ripartire da basi certe per capire se quello che degustiamo sia prima di tutto vino.

Ripeto, prima di valutare se sia territoriale e le qualità di fattura e di annata, è necessario valutare se sia vino.

Se manca la premessa il resto non ha nessun valore. Valutare non solo secondo l’insufficiente definizione legislativa il prodotto ottenuto esclusivamente dalla fermentazione alcolica, totale o parziale, di uve fresche, pigiate o meno, o di mosti di uve”, ma partendo dalla sensazione gustativa che il vino, se è vino, deve dare. La sensazione gustativa “matrice del vino”, potremo così chiamarla, è per mia e altrui esperienza, uguale a tutte le latitudini e con qualsiasi vitigno e quindi il vino ha per certo una sua propria, universale sensazione gustativa.

Ma come si valutano i vini?

Oggi i vini vengono valutati, facendo riferimento in primis ai gusti universali che sono, come sappiamo, il salato, dolce, acido, amaro. Si aggiungono altri descrittori all’infinito, quanti ce ne sono in natura e pure oltre, descrivendo più che il vino, il degustatore.

Questo genera tanta confusione. Se si definisse la sensazione gustativa del vino, eviterebbe che un degustatore, nell’approcciarsi ad un vino, esordisse e si perdesse con il ritrovarci altri gusti prima che il suo gusto specifico.

Faccio un esempio; se degusto un sale non dico per prima cosa se sia dolce o amaro, prima di tutto mi accerto che sappia di sale. È sale! Accertato questo, passo poi a classificare il diverso tipo di sale; proveniente da un territorio specifico e riconoscibile per colore e sapore.

Questa che potremo definire come “crisi del senso del gusto” riguarda tutti gli alimenti e nelle scuole primarie si fa (non ovunque n.d.r.) la rieducazione al gusto dei cibi perché l’uomo si è staccato dalla terra e dai suoi prodotti e non li riconosce più. Con l’olio di oliva questo problema in parte è stato risolto; sui banconi del supermercato un olio extravergine per essere definito tale, passa attraverso un’indagine chimico-analitica, ma la sensazione gustativa, spesso può essere definita eufemisticamente, “olio di freni”.

I panel test, equipe di degustatori esperti, invece sono in grado di stabilire perfettamente senza margine di errore se un olio, è olio e di qualità. Nessun difetto o pregio gustativo sfugge alla griglia e questa è valida in tutto il mondo. Non è raro che un olio di un piccolo produttore anche sardo, passi tutti i livelli dei panel regionali, nazionali e venga poi eletto miglior olio al mondo.

Per il vino è più difficile in quanto il processo produttivo è reso più complesso dalle fermentazioni e ricercarne la matrice gustativa e classificarla, comporta credo, uno studio sensoriale molto approfondito, ma che di certo si può fare. Per chi potrebbe essere spaventato da una valutazione quasi matematica, in quanto ha una visione estetico-spirituale della degustazione del vino, se facciamo il confronto con la valutazione estetica di un quadro, il frutto di questo studio ci permetterebbe di capire se siamo di fronte ad un originale o ad una copia, per quanto ben fatta: in sintesi vino o bevanda.

Seguono poi altri studi: nell’arte lo studio stilistico per valutarne l’adesione ad un movimento, l’autore e, a seguire il soggetto; nel vino ricerchiamo la matrice territoriale, il vitigno, la tecnica produttiva, l’azienda, in sintesi il terroir. Per ultimo lo studio della poetica, le intenzioni espressive dell’opera, che in un vino sono l’espressione olfattiva e gustativa, la bevibilità, l’annata, che sono il frutto specifico di quel terroir. La terza parte, la poetica del vino, è l’unica parte attualmente valutata, ma risulta priva di senso se non siamo certi della matrice gustativa e senza uno studio serio sul terroir di provenienza, sempre che questo esista, Armando Castagno docet.

Quando la poetica è falsa

Questi studi permetterebbero di sfrondare molti dei dubbi che oggi lasciano perplessi anche i più esperti degustatori. Questi si trovano a valutare dei vini in teoria di alta qualità, perché sono l’insieme di più parametri ottimali, come denominazione, qualità dell’uva, legni nuovi e processo produttivo accurato seguito da un famoso enologo, uniti a un grande investimento nella comunicazione (che spesso è fuorviante e non aiuta), ma qualcosa è mancato, oppure si è aggiunto maldestramente. Imputati principali sono i lieviti e legni aromatizzanti e una miriade di coadiuvanti, tutti ammessi dalle leggi vigenti; utili alcuni con le uve di bassa qualità, ma usarli indiscriminatamente per fare i grandi vini, spesso è un danno. Questi vini sono forse tanta roba, ma hanno perso la sensazione gustativa che un vino deve avere, di conseguenza la poetica è falsa, non coinvolge, e la bottiglia è dura da finire. Un noto giornalista internazionale ha commentato in privato, dopo la degustazione di una denominazione italiana di successo, che non metterebbe alla sua tavola l’80% dei vini degustati, anche se hanno preso alte valutazioni.Siamo di fronte a un nonsense. Non vale neanche la giustificazione che ci vogliono anni di affinamento e che più avanti il vino darà il meglio di sé. Il vino, se è vino, lo è da subito oppure non lo sarà mai, migliorarsi con gli anni è un’altra cosa. Fa riflettere che magari i secondi vini delle stesse aziende, fatti con altre finalità, conservano di più la giusta sensazione gustativa.

Come definire e valutare il vino?

Anche il processo contrario, secondo le nuove tendenze filo-natural di voluta incuria e pressapochismo nella produzione, spesso portano allo stesso effetto di denaturazione gustativa del vino, in questo caso non intaccandola, ma ricoprendola con dei grossi difetti. Ripeto che definire la sensazione gustativa che ha il vino e insegnarla come prima cosa ai produttori e a seguire agli operatori di settore e consumatori, sarebbe di grande vantaggio anche per il mercato del vino, perché segnerebbe una demarcazione netta dalle bevande, rispetto a cui perde terreno.

Questo credo, apparirà buono e logico a tanti, ma non è facile da fare perché si ha paura del nuovo e si preferiscono a questo le certezze attuali, seppure in prospettiva, disperate. È sempre storicamente lo stesso discorso; spetta ad una minoranza fare il primo passo con il fai da te, gli studi e le norme verranno dopo. Serve un gruppo iniziale che faccia un lavoro dimostrativo, magari una guida che valuti i vini secondo i nuovi parametri. Serve anche un nome per definire questo nuovo concetto di vino. Tanti termini significativi e adatti allo scopo sono stati sacrificati sull’altare del mercato e ad utilizzarli si viene fraintesi. Anche il termine “territoriale” rischia grosso se non verrà collegato saldamente alla comunità, unica vera garante del territorio e del vino, e di conseguenza del consumatore. La comunità residente con il suo bagaglio di cultura, tradizione, vocazione in un dato territorio, è l’unico fattore che non si può creare ad arte. Senza la comunità, la definizione“territoriale” come metro di qualità tout court, è aria fritta, come Carlo Macchi sottolinea.

Chi avrebbe le carte in regola per valutare?

Visto che ormai si è fatto il “giro”, conviene ritornare ai termini semplici e genuini, credo che “La guida del Buon Vino” possa andare bene. Una guida che recensisce solo i buoni vini per sensazione gustativa, territorialità, qualità, con punteggi separati per i tre parametri, ed esclude, senza se e senza ma, quelli blasonati o meno che non lasciano dubbi sulla loro non aderenza al vino. Nel marasma attuale delle guide, che hanno perso tanta credibilità, credo avrebbe un notevole successo. Dove reperire degustatori che abbiano la percezione consapevole della matrice gustativa del vino? Qui mi attirerò tante critiche. Pregherei chi si sente urtato di prenderla come una proposta semiseria perché di fatto così è in questa fase; si farà seria se incontra persone di sana pazzia che la vogliano attuare. Per la mia esperienza purtroppo in giro non ce ne sono tanti. I più attrezzati sono quei distributori, importatori e agenti di vini, che sono sorretti da tanta passione e che sono i talent scout di produttori e vini sconosciuti di alta qualità. Questi, credo sia giusto dirlo, con la loro esperienza, aiutano a capire che unendo passione e finalità più che onesta, in particolare dal punto di vista economico, perché perfettamente in linea con la loro professione che riguarda scegliere, comprare e vendere del vino di qualità, arrivano a comprendere precisamente cosa sia il buon vino.

In altre parole, si può dire, che loro lo fanno il mercato e a volte, se serve, lo sfruttano consapevolmente, ma non lo subiscono.

Naturalmente non possono essere usati, per evidente conflitto di interesse, nell’attività sul campo della Guida del Buon Vino, ma possono essere dei bravi docenti per i nuovi degustatori. Io qualche nome da proporre ce l’avrei. Uguale considerazione e manuale d’uso, per la categoria dei buoni produttori e tecnici, ma questi per la guida devono fare prima di tutto il buon vino. Ci sono poi dei semplici appassionati, eccezionali come capacità degustativa che potrebbero dare una mano. Anche di questi, qualcuno lo suggerirei. I giornalisti o degustatori di professione come dicono Carlo e Fernando, hanno i loro problemi, ma se si è disposti con coraggio a fare coming out enoico, anche intimo, perché si è coscienti e sofferenti per lo stato in cui versa il mondo del vino oggi, credo che spetti a questi pochi prendere l’iniziativa. In tanti gliene saremmo grati, il vino gliene sarebbe grato.

Francesco Sedilesu

Francesco Sedilesu è sardo, di Mamoiada. Produttore di vino ma anche penna profonda e grande conoscitore della sua isola.


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