Interviste Covid-19. Massimo Martinelli:” Se non conosciamo il passato non possiamo organizzarci per il futuro”14 min read

Siamo onorati di proporvi l’intervista a  Massimo Martinelli, personaggio che non solo incarna la Langa, ma da produttore, pittore, pensatore, estimatore, “gustatore” del Barolo e non solo, rappresenta l’anima pensante di una terra che dovrebbe riflettere di più su se stessa.

Winesurf. “Prima di tutto come stai?”

Massimo Martinelli “Tutto bene per adesso, grazie.”

W. Partiamo subito con le domande complesse. In quarant’ anni la Langa è completamente cambiata. Potresti elencarmi i principali difetti e i principali pregi di questo cambiamento.”

M.M. “Un pregio è sicuramente il riconoscimento unanime della reale bontà dei vini langaroli, che finalmente siamo riusciti a far capire. Il consumatore è sempre stato “sviato” dai commenti di quelli che, io non mi intendo di lingua inglese ma credo si chiamino wine opinionist o writer, hanno fatto delle cose anche un po’ esagerate. Sto pensando a un grande personaggio che ho avuto l’onore di conoscere, Gino Veronelli ,il quale aveva un’onestà interiore superiore alla media: noi dobbiamo farci valutare da persone che capiscono la nostra interiorità. Il difetto è che siamo andati troppo veloci. Ogni tanto mi rifaccio ai discorsi di Angelo Gaia: lui dice che bisogna leggere, essere informati. Purtroppo la gioventù di oggi, che è molto brava a fare il vino e a promuoverlo non ha una cultura profonda, non sa dare il giusto valore al tempo e questo a me spiace molto.”

foto Albese News

W. “Hai parlato prima di Veronelli che si definiva anarchico, secondo te qual è il vino di Langa, come tipologia naturalmente, più rivoluzionario?

M.M. “Che domanda… mi metti in crisi. Allora ti provoco anch’io: il vino più rivoluzionario che oggi ha un po’ di spazio in Langa è il Riesling!”

W. “Bella e interessante risposta.”

M.M. “Credo si debba partire da alcune basi storiche: una volta andavi all’osteria e non avevi bisogno di avere la carta dei vini. Ordinavi la bottiglia e ti portavano quello che veniva comunemente chiamato il vin neir cioè il vino nero, che da noi era il Dolcetto e nel Monferrato la Barbera. Il vino bianco, nell’accezione del termine, era il Moscato. Quindi la grande differenza era tra il nero e il bianco, stop. Ma oggi dobbiamo darci un po’ di arie dicendo che siamo grandi produttori di vini rossi, perché storicamente noi abbiamo una cucina che è molto ricca e saporita e che richiede il vino rosso: penza che anche quando, in passato, si faceva il venerdì di penitenza e si mangiava polenta e merluzzo il vino era sempre lo stesso, il vin neir. Anche noi seguiamo un po’ le mode e se c’è una richiesta di vini bianchi li produciamo, tipo arneis e favorita, però abbiamo avuto il coraggio di piantare anche altri vitigni, come il sauvignon (che ho piantato pure io) o come il riesling. Credo che quest’ultimo, oggi, sia il vino che in Langa fa più impressione e quindi il più “rivoluzionario.”

W. “Ha proposito di fare impressione. L’alta Langa come lo vedi? Come vedi l’idea di fare bollicine metodo classico in Langa?”

M.M. “Una grande idea, che al momento ha dei limiti quantitativi, cioè mancano i numeri per aggredire il mercato. Del resto con chardonnay e pinot nero l’Alta Langa ha grandi possibilità qualitative. Alcuni produttori vorrebbero si ampliasse la base ampelografica, aggiungendo magari il 5% di nebbiolo e su questo, non avendo mai prodotTo vini spumanti,  non ho basi tecniche per esprimermi. L’Alta Langa è comunque una carta che noi abbiamo da giocare e sta rivalutando anche delle zone che erano povere e senza prospettive agricole.”

W. “Per fare un vino da grande invecchiamento serve più la tecnologia o la memoria?”

M.M. “Per me serve l’esperienza.”

W. “Cioè la memoria di quello che è stato fatto in passato.”

M.M. “Vedi, io sono convinto che se noi non conosciamo il passato non possiamo organizzarci per il futuro. La storia dà delle basi che sono troppo importanti e delle spiegazioni che risolvono tanti problemi. Oggi, lo ripeto, vogliamo andare troppo di fretta però se avessimo la pazienza di andare a riprendere vecchi testi che parlano dei nostri vini forse riscopriremmo un mondo più importante. Dobbiamo sempre indagare il passatto per programmare il futuro.”

W. “MI ricordo che durante il convegno di una manifestazione che purtroppo è morta giovane, Nebbiolo Grapes, dicesti che per un anno, ogni giorno,  avevi bevuto una bottiglia diversa di Barolo, per cercare di capirlo. Mentre “studiavi” cosa hai imparato?”

M.M. “Mi è servito per scrivere il mio libro, Il Barolo come lo sento io,  e quindi l’ispirazione mi è venuta con queste continue degustazioni, che mi hanno messo davanti una realtà appassionante, intrigante e estremamente piacevole. La gente spesso parla di un vino ma non l’ha mai assaggiato. Gualtiero Marchesi diceva, quando ancora aveva il locale in via  Bonvesin de la Riva , che tanta gente si dava delle arie dicendo che c’era stata a mangiare ma non era vero. Bisogna sempre avere i piedi per terra e tante volte assaggiare dei vini non tanto buoni ti fa capire quali sono buoni.”

W. “Oggi “il problema” è che ci sono sempre meno vini cattivi rispetto a trenta anni fa.”

M.M. “Questa è una grande verità. Oggi la tecnologia ha sopperito, in parte ad alcune magagne, però come diceva il mio caro amico Beppe “Citrico” Rinaldi, tante volte bisogna anche accettare che nel vino ci sia un piccolo difetto. Renato Ratti, mio zio, ha vissuto per molti anni in Brasile e i brasiliani dicono che perfetto è soltanto Dio. L’uomo o il vino come fanno ad essere perfetti? Sempre più spesso leggi che un vino ha ottenuto 100/100, ma non è possibile, non so cosa ne pensi tu.”

W. “Tanti ci saltano addosso perché nella nostra guida diamo dei voti che ritengono bassi, ma io dico sempre che quando a scuola prendevo otto ero felice come un pasqua.”

M.M. “Sono d’accordo con te. Sono enologo, ho studiato ad Alba ma noi siamo sempre severi nei voti, proprio per il motivo che dici tu, non ci si può far prendere dall’entusiasmo e bisogna sempre cercare di riflettere.”

Pinot Gallizio

W. “Ad Alba, dove hai studiato, c’è una scuola enologica importante. Quale consiglio daresti ad un ragazzo che si volesse mettere a fare vino?

M.M. “Gli direi di avere una buona base scolastica, questo è molto importante. Poi va da sé che quello che dà valore alla scuola sono i docenti e io ho avuto la fortuna di avere grandi personaggi, come il preside Dell’Olio, ricercatore, che aveva girato l’Europa negli anni trenta per capire il mondo del vino. Ho avuto anche a fortuna di avere come insegnante Pinot Gallizio, che ci faceva i corsi di erboristeria e ci insegnava a fare gli infusi e il liquori. Ma era il momrento in cui si era dedicato all’arte e riceveva i colleghi pittori a scuola, così negli anni 1962-1963  abbiamo avuto anche due o tre visite di Lucio Fontana e io mi sono talmente “eccitato” dal suo modo di fare pittura che ancora oggi sto dipingendo seguendo le orme della Pittura Industriale che aveva lanciato Pinot Gallizio.Dipingo delle tele lunghe dieci metri e poi le vendo a pezzi.”

W. “Scusa, mi viene una battutaccia ma non oso.”

M.M.”Dai dimmi, son curioso.”

W. “L’ultima cosa che ho comprato a metro è stata la pizza.”

M.M. “(Risata grassa) Io invece vendo le tele a metro e ogni tanto qualcuno che vuol fare al testiera del letto o altre cose in casa me le compra. Mi diverto molto a farlo.”

W. “Sei stato anche presidente del Consorzio Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Roero.”

M.M. “Si, mi pare dal 1994 al 2001 e posso dire di aver avuto un gran direttore, Giancarlo Montaldo. Pensa che ero stato chiamato da Giacomo Oddero, che allora era Presidente della Camera di Commercio di Cuneo. Il consorzio stava passando un periodo difficile e lui mi convocò e mi disse “Martinelli, è arrivato il suo momento!”. Così mi appassionai all’idea e nei primi tre  anni ebbi la fortuna di avere nel consiglio dei pezzi da 90: uno su tutti, Angelo Gaia. Non perse una riunione ed era sempre un elemento che sapeva dire delle cose importanti. La reputo un’esperienza positiva e molto creativa.”

Renato Ratti

W. “Tu eri nipote di Renato Ratti…”

M.M. “Si, era il fratello di mia mamma, che era più vecchia di Renato di 20 anni e così io avevo 9 anni meno di mio zio: mi sembrava un fratello maggiore.

W. “Renato Ratti  è stato uno di quelli che la Langa l’ha immaginata con chiarezza, l’ha vista prima di altri. Cosa ha lasciato Renato in eredità a tutti?”

M.M. “Ha lasciato riflessioni e pensieri. Ogni tanto c’è qualcuno che dice “Però Ratti, quando diceva quella cosa, aveva visto lontano.”

W. “Ma tu, nipote di Ratti, una volta enologo, trovasti lavoro subito?”

M.M. “Appena diplomato non c’erano molte prospettive, ebbi fortuna che trovai lavoro in Svizzera. Dal 1964 al 1969 ho lavorato in una grande azienda vinicola Svizzera e lì mi si è aperto un mondo, perché prima il mondo per me finiva tra Dolcetto, Barbera e Barolo, mentre in Svizzera si assaggiavano vini di tutto il mondo e così ho imparato molto. Poi nel 1969 mio zio mi disse di andare a lavorare con lui è così sono rimasto in cantina Ratti dal 1969 al 2009.”

W. “Questa è una domanda che ho già fatto ad altri ma mi fa piacere avere una tua risposta. A proposito di pandemia, Pan è il dio greco della campagna, della vita agreste e non per niente ha corna e piedi caprini. Forse è la rappresentazione migliore di come l’uomo deve convivere con l’animale e la natura, in questo caso però la natura si è rivoltata contro di noi. Dove abbiamo sbagliatoDomanda su Pan dove abbiamo sbagliato?”

R.R. “La natura sta riprendendo il suo ruolo. Noi dobbiamo avere rispetto per la terra, per le coltivazioni, per gli animali, ma purtroppo ancora oggi l’agricoltura non è visto sotto l’occhio della sua assoluta necessità. Noi non mangeremo mai i bulloni e quindi la terra va amata e coltivata con discrezione. Non si può pretendere che in ettaro si possano fare, per esempio,  2000 quintali di grano. Quando noi in Langa facevamo 20 quintali ci sembrava già un gran successo.”

W. “Se ti guardi intorno nelle langhe vedi vigna, vigna e vigna, non credi che un luogo considerato anche  Patrimonio Unesco debba curare maggiormente la biodiversità?”

M.M. “Sicuramente. Questo è un problema che stanno cercando di capire. Faccio l’esempio dei tartufi che, dicono, scarseggiano. Per forza! Prima era pieno di boschi ma ora abbiamo distrutto tutto. Ma io preferisco avere un tartufo che non dieci filari di vigna in più , perché il tartufo è un richiamo straordinario a livello mondiale, quindi dobbiamo mantenerlo e non farci prendere dall’egoismo di fare qualche bottiglia in più. Se tu regali due bottiglie non risolvi niente, ma se regali un tartufo (ridacchiando) risolvi molte cose. Pensa che in passato abbiamo avuto personaggi come Giacomo Morra, che non solo faceva mangiare nel suo ristorante montagne di tartufi ma  mandava i più grossi ai capi di stato o ai personaggi importanti. Mi pare nel 1952 spedì al presidente americano Harry Truman un tartufo di un chilo e mezzo. Un tartufo di quel peso è grande come un pallone da calcio! Allora la spedizione si faceva in cassette di legno con dentro il riso per conservare l’umidità.  Dopo un po’ di tempo gli arrivò una lettera dalla Casa Bianca che diceva “Grazie per  il riso ma non abbiamo capito il significato di quella patata puzzolente”. Il tartufo era ammuffito ma comunque tutti ne parlarono.”

W. “Biologico, naturale biodinamico, cosa ne pensi?

M.M. “Un tempo non è che ci fossero tanti soldi, quindi anche i trattamenti venivano fatti al minimo indispensabile, però qualcosa bisognava fare. Naturale non è un termine che mi piaccia, mi sa tanto di moda. Io credo che il vino debba rispettare dei canoni: no solforosa, no questo, no quell’altro… ripeto che qualcosa bisogna fare, altrimenti se schiacci dell’uva e la lasci fermentare ottieni solo dell’aceto. Se non c’è la guida dell’uomo intelligente, che segue i vari processi, noi il vino buono non l’avremo mai.”

W. “Per  un vino come il Barolo o il Barbaresco è più importante la qualità o la riconoscibilità?”

M.M. “Sono importanti entrambe: certo, tu devi collocarti in un territorio e il vino parla a nome della  terra. Però per me sono entrambi importanti.”

W. “Oramai nel Barolo  e nel Barbaresco la qualità non manca…”

M.M. “Mi ricordo che nel 1972, annata pessima, venne in cantina da noi Robert Mondavi e ovviamente gli facciamo assaggiare il 1971. Lui rimase colpito da quel vino e ci chiese quando lo avremmo messo in commercio. Gli dicemmo dopo tre anni e rimase sconvolto dicendo “Ma se un vino è buono dobbiamo aspettare tre anni per berlo?” La qualità c’era anche in passato, solo non sapevamo come farla conoscere”.”

Dogliani

W.“Domanda cattiva. Tu produci Dogliani e Barolo, praticamente produci un vino (Barolo) che commercialmente ha ucciso l’altro (Dogliani). Scherzi a parte, chi e quando ha fatto i maggiori errori per il Dogliani e il Dolcetto in genere?”

M.M. “E’ proprio cattiva questa domanda, ma hai ragione. Vedi, ogni territorio a un certo punto si vuole dare l’importanza di produrre qualcosa di importante, però il Dolcetto, nella sua natura, è il vino della quotidianità: non troppo alcolico, non molto strutturato, semplice se vuoi ma molto accattivante. Invece si è voluto fare un Dolcetto di 14°, magari passato in barrique: ma quella non è la natura del Dolcetto. Ora stanno tornando indietro perché la fragranza e la freschezza vanno sostenute, divulgate e valorizzate. In Piemonte di vini importanti , che migliorano col tempo, e ne sono già tanti, ma perché dobbiamo aspettare anche del tempo per bere il Dolcetto? Per me il dolcetto rimane vino dell’immediatezza.”

W. “A proposito, cosa vuole dire “Assanen” ( il nome del suo Dogliani)

M.M. “A Dogliani abbiamo avuto il coraggio di togliere il termine Dolcetto. Quando stavamo decidendo questo cambio abbiamo avuto degli scontri, molto simpatici ma cruenti, con Quinto Chionetti, ma alla fine convincemmo anche lui. Così quando mi chiedono che cosa è il Dogliani io rispondo direttamente sull’etichetta:  “Assanen”, che in piemontese vuol dire “Non si sa”. E’ una provocazione ma spesso funziona.”

W. “Per chiudere, quando non bevi ituo vini, fuori dal Piemonte cosa bevi?”

M.M. “Fuori dal Piemonte?”

W. “Sai (scherzando) esistono anche altri vini fuori dal Piemonte, è una certezza.”

M.M. ” Ahh, volevi ricordarmelo (stando allo scherzo), grazie. Scherzi a parte un grande vino che apprezzo molto è il Taurasi. Amo anche i vini siciliani. Quando divenni presidente del Consorzio un giornalsita scrisse che ero troppo “filoborgognone”. In realtà ho la fortuna di girare, sono curioso  e in Borgogna ho tanti amici che fanno buoni vini e io li bevo, mica devo vergognarmi.”

W. “Vedo con piacere, si fa per dire, che non hai parlato, neanche per sbaglio, della Toscana.”

M.M. “Vedi, io ero affezionato a certi Chianti Classico, poi con l’aggiunta del cabenet e del merlot ho perso l’appeal.”

W. “Ti garantisco che da anni si fanno ottimi Chianti Classico con solo sangiovese, molto piacevoli e bevibili.”

M.M. “Mi ricordo a Firenze, al ristorante Buca Lapi, diversi anni fa quando mangiai due bistecche per complessivi due chili e mezzo. Ci misero in tavola un fiasco di Chianti, magari semplice, ma ti dava l’idea di un territorio. Quello io apprezzo in un vino. Mi piacciono molto anche i vini Svizzeri: ho la fortuna di avere amici nel Vallese, dove  hanno vigne che arrivano a 1400 metri di altezza, e lì fanno un bianco che si chiama Heida, dall’omonimo vitigno e visto che ci siamo mi do anche qualche aria. In una parcella molto alta hanno dedicato una piccola parte a dei personaggi del vino e il primo a cui hanno conferito questo onore sono io. Quindi ci sono due viti con il mio nome che ogni hanno mi danno diritto a due bottiglie di vino, con il mio nome sull’etichetta.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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