In Piana Rotaliana un occhio al teroldego e uno ai PIWI4 min read

A pochi mesi dalla tavola rotonda in Incontri Rotaliani ci si ritrova a Palazzo Martini a Mezzocorona per “Alla scoperta del Teroldego”, un evento fatto di conferenze ed interessanti Masterclass per riflettere su questo vitigno autoctono. Il teroldego è ad oggi ancora in evoluzione, con uno sguardo al passato ma ben radicato nel presente e in proiezione “dinamica” verso il futuro. L’obiettivo del lavoro in essere su questo vitigno, nato probabilmente sulle colline sopra  Trento, è fargli raggiungere la migliore espressione qualitativa.

Grazie all’avvento delle analisi del DNA si sono sgretolate molte delle certezze che hanno caratterizzato la storicità dei vitigni italiani: stravolgimenti impensati per gradi di parentela e provenienze ci spingono a dover rivisitare la definizione di vitigno “autoctono”. D’altra parte essi subiscono nel corso dei secoli continue modificazioni che possono avvenire per addomesticamento, incrocio oppure per trasporto (in questo caso trasversale, da Oriente e Occidente).

Parentela genetica di primo grado con il lagrein, suo progenitore, il teroldego ha legami e somiglianze anche con il syrah, il pinot nero e il marzemino. Non per niente, durante un’interessante masterclass guidata magistralmente da Andrea Moser, Kellermeister della Cantina di Caldaro, queste somiglianze hanno messo in difficoltà anche qualche produttore.

L’unicità del teroldego nel Campo Rotaliano è stata data da: habitat, clima, intervento dell’uomo, e unicità del terreno, fattori fondamentali per rendere “autoctono” un vitigno, che qui ben si è insediato, manifestando il meglio di sé.

Purtroppo ancora non viene giustamente valorizzato spesso a causa della grande produttività. Inoltre le selezioni massali prima e clonali poi, ne hanno notevolmente impoverito la variabilità. Esse infatti hanno portato ad avere grappoli di grande volume e alta fertilità, omologando così il patrimonio fenolico.

Per questa sua adattabilità e buona resa, sempre di più viene coltivato al di fuori dalle aree tradizionali: non solo fuori regione, ma ad esempio anche in California, per dare struttura e colore nei blend. Unitamente a questo, a livello locale abbiamo  anche una produzione “quasi industriale” da parte delle società cooperative. Capiamo che gli interessi cooperativi siano quelli di fare massa e produzione ma così il valore espresso dalla territorialità e dalla qualità ricercata dai piccoli produttori rischia di essere oscurato.

Da parte dei vignaioli più lungimiranti c’è comunque la volontà di guardare al futuro, ma l’attento lavoro in vigna e il diradamento per produrre minor quantità e maggior qualità rischiano di non bastare.

La Fondazione Edmund Mach  sta investendo in un progetto che ha lo scopo di migliorare il comparto genetico del teroldego, recuperando e selezionando quello degli antichi vitigni, per diversificarlo il più possibile. Si creano nuove varietà con carattere di tolleranza alle principali malattie fungine e con una nuova attenzione verso le malattie che emergono dopo la sensibile riduzione dei trattamenti (almeno del 70%).

Il Teroldego è un vitigno che ben si presta agli incroci. Un esempio è sicuramente il REBO, Teroldego x Merlot del prof. Rebo Rigotti.

In piena produzione da una oltre una quindicina d’anni, oggi vede alcune aziende che lo stanno coltivando con un crescente interesse nella versione secca, ottenendo un vino dai profumi freschi e balsamici, con note di frutta rossa e nera, fiori e leggera speziatura.
Interessante anche la versione da appassimento, il REBORO, che nasce nella zona della Valle dei Laghi (già naturalmente favorita per le uve appassite da Nosiola) , grazie all’influenza costante dell’Ora del Garda.
Rebo che però non si spiega del tutto dove finisca: poche aziende lo producono in purezza, di contro a una produzione annuale sempre più alta, che poi di fatto non viene dichiarata nelle varie etichette.

Inoltre nel 2014 sempre la Fondazione Edmund Mach ha iscritto a registro Nazionale le varietà  “IASMA ECO 1” e “IASMA ECO 2”, ottenute da incrocio Teroldego x Lagrein, vitigni entrambi resistenti, ma non per questo immuni da malattie.

Nel 2020 inoltre sono state iscritte le varietà resistenti TERMENTIS e NERMENTIS, ottenute dallo stesso incrocio da due vinaccioli diversi di Teroldego x Merzling (varietà resistente a peronospora e oidio, iscritta in Germania e ancora non riconosciuta in Italia). Coltivato a Guyot raggiunge la sua maturità vendemmiale piuttosto precocemente ma se non raccolto la mantiene in maniera costante per parecchio tempo.

Aldilà delle nuove specie un vigneto deve essere piantato e quindi l’habitat è sicuramente uno dei principali fattori che caratterizzano la vita di un vitigno: in questo senso la forte antropizzazione dei territori ha reso molto difficile la vita ai produttori: dove prima i campi si sviluppavano senza interruzioni oggi, a causa della forte urbanizzazione, sono sempre più frammentati.

Nel Campo Rotaliano i 435 ettari di teroldego si stanno riducendo di anno in anno, e i vigneti si sviluppano tra case, piste ciclabili, strade, ferrovie e scuole. Questo va ad interferire con la necessità di eseguire i trattamenti (seppur pochi) indispensabili poiché richiedono rigide normative sugli orari e una distanza minima dalle infrastrutture.

Anche per questo motivo, sempre più vignaioli si affidano ai nuovi incroci e ai vitigni resistenti, proprio per poter produrre in contesti dove la coltivazione convenzionale non è più tollerata e concessa.

L’invito ai produttori della Piana Rotaliana, è quello identificare al più presto  delle Menzioni Geografiche Aggiuntive per valorizzare l’unicità territoriale, difendendo la dicitura “CAMPO ROTALIANO” per meglio legare il prodotto al proprio contesto territoriale.

Letizia Simeoni

Beata la consapevole ignoranza enologica. Finchè c’è ti dà la possibilità di approcciarsi alla conoscenza! Prosit.


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