Frammenti Bolgheresi10 min read

“A Bolgheri ci lascio ogni volta il cuore.
Lo scorso ottobre ci sono tornato qualche giorno con Tamy, trascorrendo giorni lieti, coccolati dall’ultimo soffio di un’estate lunghissima. Alito tiepido che ricorderò per sempre, tra passeggiate in spiaggia e assaggi mirabili, tra enormi pini marittimi e borghi incastonati su crinali di roccia. Bevemmo, tra gli altri, uno splendido e sorprendente Bolgheri Rosso 1999 di Le Macchiole, il vino più semplice della gamma aziendale, oggi di folgorante fusione, vivo e vegeto, testimonianza radiosa del terroir di Bolgheri e del talento di Eugenio Campolmi, che davvero troppo presto se n’è andato. Buonissimo quel vino, ammiccante e succoso, e che gioia gli occhi di Tamy dentro i miei. E che dentro di me rimarranno. Fino all’ultimo dei miei calici.”

La storia del vino è legata agli uomini. Hai voglia a raccontare le magie di un luogo, le straordinarie peculiarità di un suolo, la classe di un vitigno se poi a questi elementi, certamente importanti, manca una guida altrettanto ricca di talento. Si tratterebbe, come non così di rado avviene, di potenzialità non valorizzate appieno o di grande occasione mancata: perché la vera forza di un’azienda e di una denominazione sta tutta nelle mani, nella testa e nel cuore degli esseri umani. Solo produttori di grandi virtù, onesti, curiosi, competenti, ambiziosi e il più possibile coraggiosi, permettono di chiudere il cerchio e di dare al territorio un valore complessivo superiore alla somma dei suoi addendi. Non solo: ci vuole poi un gruppo di persone lungimiranti, in grado di dialogare tra loro e di mettersi dalla parte del futuro, per riuscire a creare i presupposti perché una zona sia riconosciuta come un organismo vitale, e non come un aggregato incoerente, privo di forma.

Prendiamo Bolgheri. Al netto delle considerazioni personali sugli esiti (e sugli approdi) del suo successo e sul valore oggettivo dei suoi luoghi, è indiscutibile che quel pezzo d’Italia posizionato lungo l’Aurelia, a sud della provincia di Livorno, sia tra le zone del vino toscano di maggior prestigio, nonostante una storia tutto sommato recente. Non staremo a dire, ad esempio, che fino al 1993 il disciplinare locale prevedeva solo le tipologie Bianco e Rosato, e che alla fine del decennio precedente le aziende attive sul territorio erano una decina, non una di più.

A Bolgheri alla fine degli anni Novanta il grano e la frutta primeggiavano sulla vite, nonostante la storica presenza di Tenuta San Guido, celebre già alla fine degli anni Settanta e attiva commercialmente dalla fine dei Sessanta, e benché nel decennio successivo altri marchi di ottime prospettive nacquero sulla scia del successo internazionale del vino Sassicaia. Del resto i numeri ce ne danno conferma: nel 1998 gli ettari coltivati a vigna erano appena 180.

Insomma, se per anni Bolgheri è stata solo terra di pallidi liquidi salmastri e di un sangiovese piuttosto dimesso, incapace di tenere testa alle aree della Toscana Centrale (Chianti Classico, Montalcino, Montepulciano), da tre decenni è considerata, in modo inequivocabile, la Bordeaux d’Italia, con vini più o meno buoni, ma in ogni caso credibili.

Un risultato ottenuto attraverso l’abnegazione, la lucidità e l’intelligenza degli uomini, su questo non si discute: da un lato le famiglie nobili, con enormi tenute e importanti capacità finanziarie, dall’altro i piccoli produttori, con pochi mezzi ma tanta voglia di fare e di emergere. Due realtà che invece di contrapporsi hanno saputo coesistere, per creare un progetto lungimirante e attraente agli occhi della critica e dei mercati internazionali, ribaltando le gerarchie del vino toscano.

La mia generazione di assaggiatori ha probabilmente esaurito ogni nuova esperienza possibile. Ha bevuto ogni vino, visitato ogni luogo, letto ogni libro, incontrato ogni produttore, digerito ogni tecnica, interpretato e smontato ogni idea intorno al liquido odoroso. Quello che tuttavia ci manca e ci mancherà per sempre, a meno che un genio assoluto non realizzi sul serio la macchina del tempo, è poter tornare fisicamente a quando tutto è partito; è vedere il mondo del grande vino italiano in embrione, a cavallo di quella pacifica rivoluzione produttiva e stilistica iniziata alla fine degli anni Settanta del Novecento (con accelerazioni decisive dopo lo scandalo del vino al metanolo, nel 1986).

Ecco, sarebbe magico poter viaggiare indietro nel tempo, attraversando quel fermento primigenio, quelle fiamme di passione che hanno poi condotto al successo vinicolo italiano più diffuso, alla turbo-enologia e al Big Bang mediatico di fine anni Novanta. Darei un braccio pur di potermi catapultare in quegli anni in cui tutto nasceva e poco si sapeva, in cui nulla o quasi era stato valorizzato, saccheggiato, usato. Darei un braccio per tornare a quando era l’entusiasmo e non la consapevolezza il sentimento più diffuso, le intuizioni rivelatrici e non i protocolli più condivisi le chiavi di lettura per riconoscere un terroir e un vino di valore.

Ecco, se un genio mai esistesse e accettasse l’ardito baratto (il mio arto per un salto temporale di circa quarant’anni), allora mi trasferirei certamente a Bolgheri, perché il vino italiano che segna l’inizio del rinnovamento nasce proprio in quel lacerto di costa toscana cantato dal Carducci. Lì, Tenuta San Guido nella seconda metà degli anni ’70 e un manipolo di altre aziende nate nel decennio successivo – Ornellaia, Grattamacco, Guado al Tasso, Michele Satta, Le Macchiole – attirarono l’attenzione della stampa e degli specialisti sulla nostra enologia (quando il vino di qualità era sporadico) con bottiglie concepite fregandosene del passato ma guardando avanti, molto avanti. Bottiglie che contenevano liquidi curati, polputi, ottenuti da vitigni francesi alla moda di Bordeaux, slegati dalla tradizione e dalle abitudini locali: una specie di apparizione del colore dopo una vita in bianco e nero, come vedere il cielo dopo una vita in galleria.

E si sa che la luce di Bolgheri è proverbiale. Quella del tardo pomeriggio, che altrove perderebbe in intensità e che lì, grazie alla decisiva azione di riflessione del vicinissimo Mar Tirreno, sprizza luminosità fino al crepuscolo, alternandosi all’azzurro del mare, al verde della pineta costiera, al rosso della terra ferrosa. Una luminosità che è gioia per la vite, per i grappoli e per noi bevitori, giacché la si percepisce sempre, in ogni vino rosso locale, perfino in quelli più strutturati e profondi, anche in quelli meno felici. Che passi da un pertugio o da un’ampia finestra, a seconda dello stile di ciascuna azienda, delle caratteristiche proprie di una zona e del timbro della singola annata, la luminosità è una costante a Bolgheri, e scongiura la cupezza che molti rossi di ispirazione bordolese esprimono in altri luoghi della Toscana.

Non è finita. Perché ci sono anche le brezze, frequenti e costanti in qualsiasi periodo dell’anno, alimentate da un continuo movimento di correnti d’aria di cui sono responsabili il mare a ovest e il polmone verde delle Colline Metallifere a est, una catena antiappenninca di media altitudine (parallela alla costa) che in estate rinfranca l’intero vigneto bolgherese, fungendo altresì da spartiacque fisico e climatico con la limitrofa (e più continentale) zona della Val di Cornia.

In questo contesto solare, provenzale, prettamente mediterraneo, nascono i più noti <<Bordeaux italiani>>, i cui portabandiera, nel mondo, sono principalmente due: Sassicaia e Ornellaia. Il primo in perfetto stile europeo, classicissimo; il secondo costruito per incantare i mercanti internazionali e gli amanti dei volumi lussuosi. Alle loro spalle però c’è di cui gioire: i vini di Le Macchiole, di Fabio Motta, de I Luoghi, di Enrico Santini, di Argentiera, di Grattamacco, di Michele Satta e – in alcune annate di Guado al Tasso – meritano infatti da molto tempo altrettanta considerazione.

Sassicaia, vero e proprio mito italico celebre ovunque nel pianeta, è la referenza di punta della Tenuta San Guido, fondata nel 1942 da Mario Incisa della Rocchetta, un visionario e per alcuni addirittura un genio nato a Roma nel 1889 da famiglia monferrina. Il quale studiò alla facoltà di agraria dell’università di Pisa, conobbe Clarice della Gerardesca, discendente di uno dei casati più antichi della Toscana e a Bolgheri mise radici. Al marchese Mario Incisa della Rocchetta si deve gran parte della conservazione dell’ambiente e dello sviluppo dell’Alta Maremma, in quella fascia di territorio che parte poco a sud di Bibbona e arriva fino ai confini della Val di Cornia. Un’opera scaturita dall’amore che il marchese aveva nei confronti del territorio: tanto che a Bolgheri – complice l’enorme dote della moglie Clarice: 600 ettari e una decina di poderi – realizzò nel 1959 la prima oasi faunistica privata italiana. Primo presidente del WWF nel nostro Paese, fu anche proprietario della scuderia Dormello Olgiata (fondata con il grande allevatore Federico Tesio), dove nacque il mitico cavallo Ribot, il più famoso galappatore di tutti i tempi.

Ma per quanto riguarda noi appassionati di vino, a Mario Incisa dobbiamo soprattutto l’invenzione del Sassicaia (la sassicaia è il mucchio di sassi accumulati dopo la bonifica del terreno), vino battezzato con la vendemmia 1968 (con saldo di 67 e di 69) dopo ben 26 anni di sperimentazioni. Sassicaia, che gode di una propria sottozona a partire dal 1994 e di una propria denominazione d’origine dalla vendemmia 2013 (Bolgheri Sassicaia) è ancora una creatura della famiglia Incisa della Rocchetta, di Nicolò e di sua figlia Priscilla, con la collaborazione del bravissimo Carlo Paoli.

Ornellaia è invece il vino bandiera della tenuta eponima creata da Ludovico Antinori nel 1981, il quale dopo aver lasciato l’azienda di famiglia (la Antinori di Firenze) e grazie alla decisiva complicità enologica di Andrè Tchelicheff (sciamano del “nuovo” vino californiano a cui fu affidata la consulenza del progetto iniziale), rese Ornellaia (il cui primo millesimo è il 1985) e il più elitario Masseto (all’esordio nel 1986) vini imprescindibili per buona parte dei mercati del mondo. Successo poi consolidato dai Marchesi Frescobaldi di Firenze, che acquisirono la tenuta nel 2005.

Il resto è storia attuale. Una settantina di aziende attive sul territorio, poco meno di 1400 ettari vitati complessivi, di cui il 37% appannaggio del Cabernet Sauvignon, seguito dal Merlot (23% della superficie totale), dal Cabernet Franc (12%), dalla Syrah e dal Petit Verdot (entrambi attorno al 6,5%). Bolgheri è sinonimo di giaciture dolci, tra pianura e pedecollina, rarissima è invece la viticoltura in collina. I vigneti prevedono un sistema di allevamento a controspalliera con potature a cordone speronato (parecchio meno diffuso è il Guyot Semplice), con densità per ettaro che oscillano tra 5000 e 8000 ceppi. L’epoca di maturazione è precoce per il Merlot (fine Agosto, prima settimana di Settembre), intermedia per il Cabernet Franc (seconda decade di Settembre), tardiva per il Cabernet Sauvignon (fine Settembre/prima decade di Ottobre). I terreni alternano argille e sabbie, con strati limosi più cospicui in pianura e presenza di sasso più o meno sensibile a seconda dei luoghi.

In cantina si lavora il più delle volte in modo ortodosso, con vinificazioni in acciaio (più raramente in tini di cemento e legno), macerazioni di due/tre settimane, svinature e travasi in barrique bordolesi, maturazioni di 12/16 mesi. Seguono filtrazioni blande e chiarifiche all’occorrenza. I prezzi delle bottiglie in enoteca variano dai 20 euro di media delle referenze più semplici alle diverse centinaia di euro delle etichette più illustri. L’offerta commerciale, ormai ampia e articolata, è fatta di luci e di ombre, di vini grandi (pochi) e di vini grossi (tanti), di vini di terroir (pochi) e di vini di stile (tanti), di vini originali (pochi) e di vini prevedibili (tanti). Bisogna dunque saper scegliere, come ovunque nel mondo, dalla Borgogna alla Langa, da Napa alla Rioja e via così all’infinito: non c’è vino buono senza bevitori curiosi, intelligenti, intraprendenti, che si affidino ai propri sensi.

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


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