Degustazione e punteggi: Il vizio assurdo4 min read

Voglio prima di tutto premettere che queste mie righe non vogliono avere nessun spirito polemico. Mi preme solo definire  concetti che da anni difendo con forza e che sono “a prescindere” dal contesto in cui ultimamente sono stati (con toni invero polemici) discussi.

Il contesto a cui mi riferisco è l’articolo su Intravino di Antonio Tomacelli (link) sulle valutazioni dei vini del sud Italia date da Ian d’Agata per  Decanter. In questo articolo Antonio critica fortemente le valutazioni di Ian soffermandosi anche (per non dire in particolare) sull’attribuzione di alti punteggi a vini di basso costo e, all’opposto, di bassi punteggi a vini definibili come importanti.

Questo è il contesto da cui però voglio uscire subito perché non sto scrivendo per difendere la posizione A o B ma un concetto, anzi due, che considero quasi come le due facce della stessa medaglia.

Il primo è che un vino  non di fascia alta, sia come prezzo sia come tipologia merceologica (ce ne sono molti,  butto qualche nome: da un Grignolino ad una Schiava, passando per un Dolcetto e una Barbera base, arrivando ad un Sangiovese di Romagna o ad un Chianti Classico o un Rosso di Montalcino, per non dimenticare un Montepulciano d’Abruzzo base o un negroamaro o un primitivo da 5-6 euro al supermercato)  non possa non essere un ottimo vino e addirittura, in un accezione assoluta per me (che cercherò di spiegare più avanti) un grande vino.

Il secondo è che non sempre,  un grosso vino (cioè potente, strutturato, muscolare) sia, tout court, un grande vino.

Partiamo dal primo concetto e per centrarlo bene vi dovete sorbire un brevissimo trattatello di storia della degustazione italiana.

In primis fu Veronelli e poi tutti gli altri: gli altri (tra cui, c’ero anch’io) tracciarono il solco che ha caratterizzato il mondo del vino di qualità. Quel solco, in cui il legno aveva spesso il ruolo salvifico di coprire difetti sino a divenire compagno inseparabile e spesso invadente, può essere riassunto così “Maggior concentrazione ottieni (in vigna ed in cantina) e meglio (più buono, con maggiori possibilità di invecchiamento) verrà il tuo vino.” Questa teoria, che una certa maturità degustativa sia di elite sia di base (oramai sono trent’anni che si fanno corsi dalle Alpi alle Piramidi) porta ad abbandonare, era imperante almeno fino al nuovo secolo. Ancora oggi è rimasto (anche giustamente in alcuni casi) in molti di noi la voglia inconfessabile, che potremmo quasi chiamare “il vizio assurdo” , di misurare i vini in chili e non in equilibrio gustativo, eleganza, finezza, complessità aromatica.

Questo equilibrio, questa finezza, questa eleganza la si può ritrovare anche in vini che, per natura, non potranno mai sventolare muscoli  o nobili natali. Un vino su tutti, il lambrusco è il classico esempio di come si possano produrre e vendere schifezze e grandi cose nell’arco di pochissimi euro.

Per questo noi di winesurf non ci meravigliamo se il vino base dell’azienda X o Y risulta il migliore in degustazione: non sempre i vini più potenti portano con se aromi ed eleganza e non sempre quegli stessi vini li sviluppano con il passare degli anni. Inoltre non ci scordiamo che un vino deve ricordare da vicino il vitigno ( o i vitigni)  da cui proviene e spesso con vini monolitici questo è difficile,  mentre un gran dolcetto lo senti da lontano!

Per questo noi di winesurf non abbiamo remore a mettere tra i grandi vini un Lambrusco, un Dolcetto, un Marzemino etc  che abbiano le caratteristiche suddette espresse al massimo livello.

Per questo non ci pare strano trovare tanti vinoni  senza garbo e senza creanza ed affibbiargli così i punteggi che, secondo noi e la nostra scala valutativa, si meritano. A proposito: se volete dargli un occhiata a questa scala eccovi accontentati (link).

In conclusione torno all’inizio solo per ribadire che questo mio articolo non vuole portare acqua al mulino di Intravino o di Decanter  e/o  avallare o criticare in maniera più o meno esplicita questa o quella valutazione. Vuole solo affermare dove stiamo noi, credo in maniera chiara,  da almeno dieci anni a questa parte.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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