Da Mamoiada al Chianti Classico alla ricerca del vignaiolo e del vino15 min read

Ci siamo lasciati alla fine del 2019, appena prima della pandemia che ha interrotto la nostra serie di visite ad altri territori. Allora la visita in Barolo e Barbaresco era stata molto interessante: il confronto  tra i due territori dove il primo, in apparenza è più ancorato alla terra e alla tradizione e con ritmi paciosi; il secondo invece frenetico e alla rincorsa del mercato.

I vini che ci avevano colpito, in mancanza di un Dolcetto di qualità ( il vino del contadino), quelli da Barbera. In questi viaggi siamo sempre alla ricerca del vino, o meglio, della sua anima, che sta nel liquido e nella terra, nel vignaiolo e nella comunità del luogo.

 Ruggero ci ha invitato al suo convegno annuale che si tiene prima di Natale a Gaiole in Chianti; lui lavora per la nostra associazione Mamojà come agronomo  e con la sua passione smisurata ci aiuta a realizzare meglio la nostra bioviticoltura territoriale.  Invita ogni anno tutte le aziende che segue per approfondire tematiche della vite e per stare una giornata tutti insieme.

In quindici aderiamo, carichiamo le nostre macchine di vino, pane carasau, formaggio pecorino e partiamo. Tanti i giovani che vengono: sono  i nostri figli e siamo orgogliosi di questo. Quest’anno Ruggero al suo raduno intende farci presentare il nostro territorio e i  vini.

La nave sporca e una ventilazione rumorosa nella cabina non ci fanno passare una bella notte, ma all’arrivo risale l’entusiasmo e ci mettiamo in strada.

In tarda mattinata abbiamo il primo appuntamento nella zona di Gaiole: Oscar, che è venuto a presentare  qualche giorno prima il suo ultimo libro a Mamoiada,  ci ha invitato a visitare la sua cantina e non ce lo siamo fatti ripetere. Manuel, il direttore, ci accoglie con grande disponibilità e gentilezza, visitiamo i vigneti condotti in bio e la cantina con descrizione accurata delle tecniche di vinificazione e assaggio dalle botti: noi produttori sappiamo che è un grande onore che ci viene concesso. L’azienda, ci racconta, fu creata da un industriale tedesco che comprò negli anni ‘90 un  centinaio di ettari e una casa di campagna e poi pensò di fare i vigneti e la cantina. Cinque anni fa l’acquisto da parte del gruppo di Oscar.

Nel presentarci il territorio, tra gli aspetti per loro positivi, ci dice che è nata una associazione tra le aziende del comune e questa ha dato buoni frutti riguardo agli scambi, a collaborazione e sul mercato. Tra gli aspetti negativi ci riferisce invece che i giovani del luogo non sono disponibili a lavorare nei vigneti e devono usare le squadre di operai specializzati, a volte anche estere.

Il pranzo “frugale” che ci viene offerto, (così ci siamo raccomandati visto che dobbiamo scappare al raduno appena dopo) a base di salumi e formaggi tipici, ci lascia senza parole e non riusciamo a trattenerci dall’esagerare; la Finocchiona è straordinaria e ne pagheremo tutti le conseguenze al convegno il pomeriggio. I vini riempiono il calice di profumi e al palato iniziano a farci prendere confidenza con il Sangiovese più scarno e tannico del nostro Cannonau.

E’ l’ora dei saluti, lasciamo qualche bottiglia dei nostri vini, scambio di numeri del cellulare per la loro visita in Sardegna, li aspettiamo.

Giusti alle 14.00 ecco a scaricare vini e vivande nella vecchia cantina della famiglia Ricasoli a Gaiole, vicino alla piazza che è stata ristrutturata ed è un bellissimo centro di aggregazione sociale. Saluti a Ruggero e Amelia che corrono indaffarati.

Iniziano le relazioni molto interessanti sia sulla gestione del suolo con le cover crop spontanee o seminate che su nuove e vecchie patologie della vite legate agli insetti dannosi;  Scaphoideus titanus vettore della flavescenza dorata e i polifagi Popillia japonica e Drosophila suzukii.

Sarà che noi non abbiamo problemi di insetti, a parte un attacco di Tignola rigata quest‘anno su alcuni vigneti, sarà la stanchezza della notte prima in nave e poi la Finocchiona di difficile digestione, tutti siamo piombati in una condizione di dormiveglia che in alcuni di noi ha prodotto strane reazioni. Peppino in particolare ad un certo punto vuole scappare, gli insetti popolano i suoi brevi sogni e alla presentazione dell’ennesimo Attila della vite, non si trattiene e da i numeri – torno a casa ed estirpo tutto prima che arrivino queste bestie!– urla nel cortile.

A parte i terribili fitofagi, comunità di erbe e comunità di microflora e insetti ci sono presentati nelle relazioni dei ricercatori, come utili per la vite. Noi, a fine incontro presentiamo il nostro territorio dicendo che la nostra comunità rurale, residente da generazioni nel nostro territorio, è anch’essa utile per la vite per il vino e per noi che  viviamo felici facendo questo lavoro. Un lavoro che intendiamo fare sempre al meglio e per questo collaboriamo con Ruggero. Su sua indicazione abbiamo costellato l’agro di centraline di rilevamento climatico, abbiamo così da lui il puntuale bollettino settimanale dei rischi fitopatologici. Usiamo poco rame e zolfo e corroboranti, facciamo le prove di inerbimento per salvaguardare la fertilità del suolo, impariamo a fare il cumulo per il compost, curare le potature sul secco e sul verde: un vero e proprio progetto di bioviticoltura territoriale. Degustazioni dei nostri vini e pane e formaggi insieme alle specialità locali hanno coronato la serata con scambio di notizie tra produttori.

L’indomani la partenza è presto; abbiamo una seconda azienda da visitare, Ruggero ci accompagna e nel percorso iniziamo a guardare bene il territorio: tante le vigne ma anche tanti boschi che, ci spiega, non si possono più toccare. Meglio così! Molto bello. 

Ci accoglie il titolare Martino che è già  venuto a trovarci a Mamoiada. Ci introduce subito in cantina, ci spiega che il padre, era un industriale e ha acquistato questi terreni negli anni sessanta per avere una casa in campagna, poi ha iniziato a fare il vino e ci ha preso gusto facendosi aiutare dal mitico Giulio Gambelli, suo vicino di casa. Gambelli con la sua appassionata azione ha segnato profondamente in positivo le due denominazione del Chianti classico e Brunello: pur non essendo un enologo, probabilmente era depositario di una sapienza empirica non confusa dallo scientismo né deviata da tendenze di mercato, unita ad una sensibilità e un’intuizione non comune riguardo al vino. “Giulio Gambelli l’uomo che sapeva ascoltare il vino” di Carlo Macchi è sicuramente un libro da leggere. Cantina fascinosa senza fronzoli, con una estetica modulare creata dall’esigenza di avere altri spazi mano a mano che l’azienda crescev. Dentro, nella bottaia che si snoda come un labirinto molto stretto e basso, le pareti sono nere dalle muffe: qualcuno chiede se non siano dannose per il vino e Martino invita  a usare oltre la vista, l’odorato; è un profumo fresco e delicato quello che si sente.

L’igiene “formale” potremo dire, non sempre è amica del vino: un ambiente complesso dal punto di vista microbico è sempre di aiuto, ci devi essere nato in cantina per capire dove e come è importante intervenire per non rovinare l’equilibrio che si crea. Una specie di maracanà, come dice Ruggero in riferimento alla complessità e vitalità della microflora e microfauna nel terreno fertile. Ci sono produttori di altre zone d’Italia e tutti sussurrano che non si potranno assaggiare i vini, siamo troppi. Martino ci guida dopo il cavò delle bottiglie delle vecchie annate in una piccola sala degustazione: siamo almeno una trentina e non ci stiamo, ma ci stappa  i vini e degustiamo. Il vino medio dell’azienda ottenuto da un solo vigneto, senza tanto legno, ci colpisce: magro e con un frutto delicato, sa di vino, ha l’anima pura incorrotta, ci piace molto. Il capo azienda ci porta a  vedere il cumulo del compost fatto con i residui della vinificazione, della potatura e del bosco, triturate e mischiate con del letame fresco di vacca che, ogni anno, dopo che si trasforma in umus, si distribuisce nelle parti più magre. I vigneti, ci assicura, sono diventati dopo alcuni anni uniformi e non ci sono zone con giallumi; niente più mèsches assicura Ruggero. Anche noi applicheremo questa tecnica.

Pasto veloce in un locale al centro di Gaiole e via per la terza azienda. Ci accolgono in un vecchio castello,  distrutto in passato nelle lotte tra Siena e Firenze, prima dell’accordo che ha stabilito i confini mediante il canto di due galli; il gallo nero fiorentino, particolarmente mattiniero, è diventato il simbolo del territorio. Ricostruito come monastero, rimangono intatte le cantine originali ad archi sotto terra: meraviglia delle meraviglie, sono spettacolari!

 Bellissimi i vigneti ben tenuti, un parco macchine altamente tecnologico per applicare bene le tecniche biologiche con risparmio di fitofarmaci e fertilizzanti, anche qui compostati in azienda. Luca il titolare,  pur di nobili origini è un contadino, lo rivelano il suo fare e le sue mani, la moglie Bettina è dolce e gentile. La degustazione si svolge in una sala regale bella e vissuta con il camino acceso, dove domina un immenso albero genealogico dipinto in una parete che parte, con il suo capostipite, dall’anno 820. I tavoli immensi apparecchiati elegantemente. Ci trattano da re.

Vini ottimi a dir poco, pur con tannini non del tutto domi che, ci dicono, sono una caratteristica dell’incrocio tra il vitigno già difficile e i terreni aziendali. Sono gentilissimi e ci vogliono ancora trattenere, ma dobbiamo scappare a Montespertoli: la nuova associazione di viticoltori che ha intendimenti simili ai nostri, ci ha invitato a cena.

L’agriturismo si presenta illuminato a festa e Giulio, il presidente, ci accoglie insieme a 15 altri produttori. Giancarlo che lavora in una delle aziende ci saluta in limba, è di Oliena, paese a pochi passi dal nostro. Saluti reciproci e presentazione dei territori e dei programmi a brevi linee delle associazioni.

Degustando i vini e una fagiolata spettacolare, veniamo a sapere che la situazione appena fuori dai confini del Classico è difficile, con prezzi dei vini molto bassi. Noi non credevamo a questo punto bassi, in una zona di tale elezione. L’impellenza della loro associazione è fare gruppo per proporsi sul mercato in maniera distintiva e poter così far crescere le aziende, valorizzare il territorio con la cura dell’ambiente e delle persone. Servirà tanto coraggio da parte loro per vincere lo sconforto di essere li a un passo da una denominazione di  grande successo e non poterlo condividere.

Probabilmente resettare tutto, scrollarsi di dosso i retaggi del passato riguardo la denominazione e puntare sull’entusiasmo di un gruppo che collabora, intraprende azioni concrete nella produzione magari biologica e nella riscoperta della figura del vignaiolo e del territorio è la giusta strada.

A noi, pur essendo stati da sempre in una zona marginale rispetto ai processi produttivi ed economici, è bastato guardarci attorno e vedere la bellezza di cui siamo attorniati per mettere fine all’atavica rassegnazione. Tutto adesso sembra bello e promettente, sia la nostra comunità, che la nostra attività fatta nel rispetto di noi stessi e del territorio. Il mercato eticamente inteso come servizio al consumatore, può essere disattivato dei suoi lacci malefici che distruggono altrimenti le persone e il vino.

L’indomani ci rechiamo al biodistretto di Panzano, la Conca D’oro, il primo e il più grosso al mondo, 600 ettari accorpati, frutto di tanti anni di lavoro e orgoglio di Ruggero che ce lo mostra. Andiamo a visitare l’azienda che ci ha creduto per prima ed è anche la più estesa con 100 ettari vitati. Ci accoglie Bernardo, facente parte della nuova generazione, la seconda del vino nella sua famiglia. Ci racconta che il nonno ha comprato questa tenuta negli anni ‘60 perché ci passa il volo dei colombacci e lui è ancora un appassionato cacciatore, i figli hanno iniziato dopo a fare il vino. Cantina di nuova fattura, ma dall’estetica territoriale, perfettamente ordinata e pulita, con grandi barricaie e qui e là qualche anfora di cui sono loro stessi costruttori. I vigneti molto belli e curati, inerbiti a file alterne: caratteristica comune di tutti quelli visitati finora.

Azienda a ciclo chiuso; allevano le vacche che producono il letame che da l’avvio alle trasformazioni nel cumulo per fare il compost. La degustazione dei vini in una bellissima sala con tipico solaio in legno a riquadri; il Chianti Classico Riserva è il primo a essere degustato, per seconda la Gran Selezione e infine il Supertuscan. Buoni! Questo ventaglio di vini rappresenta le varie epoche  di questa denominazione che per ora tiene aperte tutte le strade, ma la direzione ultima intrapresa con la Gran Selezione, è verso la vigna, il tradizionale Sangiovese e gli altri autoctoni; così non si può sbagliare.

Pranzo da Dario, il macellaio per antonomasia, che ci riserva un’accoglienza calorosa con frasi in sardo perfettamente pronunciate e un pranzo speciale con le sue carni scelte. Gli diamo appuntamento in Sardegna per ricambiare con la pecora, che lui non finisce di decantare:  “pecora  in cappotto”, “ corda”, “sanguinaccio”, le sue ricette preferite.

Ruggero per finire il pomeriggio ci riserva una chicca, una piccola azienda che conduce Carlo con il figlio. Lui un anziano ancora arzillo, ma con lo sguardo da cui sembra trasparire la nostalgia e la rassegnazione. Ruggero quasi lo costringe a raccontarci la storia del territorio. Carlo è dei viticoltori della zona, l’ultimo dei panzanesi e a sentire ciò che ci racconta, capiamo qui  il senso del nostro viaggio. Quando era giovane, i terreni erano dei grossi proprietari terrieri, i contadini erano tutti mezzadri. Nelle feste in piazza c’erano da una parte i contadini che si sentivano inferiori (sbagliando sottolinea) e si davano un tono indossando le camice bianche fresche di bucato, dall’altra i padroni in giacca e panciotto, i professionisti e i dipendenti della pubblica amministrazione. Lui era un insegnate, ma ad un certo punto ha preferito per sua scelta andare dall’altra parte della piazza ed è diventato contadino. Allora, durante il boom economico, ci fu la diaspora: i contadini andarono a lavorare in città e nelle fabbriche e le terre furono abbandonate. La terra oramai svalutata venne comprata da ricchi industriali che venivano da fuori, anche dall’estero, per avere la casa in campagna e la tenuta di caccia. Oggi acquistano da questi i nuovi investitori del vino: quasi tutte le aziende del circondario  sono proprietà di persone o gruppi non originari del posto. I giovani  preferiscono altre attività al lavoro in campagna e purtroppo la comunità agricola con i suoi ritmi e le sue feste non c’è più.

Carlo ci fa degustare per ultimo il vino che  è il suo preferito perché è fatto, ci dice, come i Chianti antichi; 80 % Sangiovese, un po’ di Cannaiolo e il resto vitigni autoctoni a bacca bianca. Non è ancora soddisfatto del risultato aromatico rispetto ai suoi ricordi d’infanzia. Difficile far ritornare il tempo indietro, magari per fare scelte diverse che avrebbero potuto modificare il presente; il nome emblematico del vino è Ultimo canto. Ne portiamo via alcune bottiglie perché è buono e per non dimenticare l’anima di questo territorio presente nell’anelito di Carlo.

Produttori di Mamoiada

Ci salutiamo, invito Carlo a venire a Mamoiada  e via verso la nave: guidano i giovani che hanno ancora forze da spendere. Ruggero ci ha presentato agli altri produttori nel raduno, come un mondo antico, come i rappresentanti di un mondo passato: in epoca moderna sarebbe stato quasi offensivo, oggi nel tempo post si può andare fieri di far parte di una comunità agricola che mantiene ancora la sua vitalità e di fare dei vini che ne sono i messaggeri.  Non solo ne dobbiamo essere fieri, ma anche grati  perché l’abbiamo ricevuta in dono e stiamo attenti a non fare gli errori che possono distruggere questa ricchezza; in particolare non vendere la terra “per un piatto di lenticchie”. Questa frase biblica e il suo contesto è più che calzante.

Appuntamento al prossimo viaggio.

Ringraziamo per averci ospitato:

Colombaio di Cencio e Oscar Farinetti, Montevertine, San Giusto a Rentennano, Fontodi, Reggine, l’associazione dei Viticoltori di Montespertoli, tutti i produttori conosciuti al raduno.

Un grazie anche a Dario Cecchini.

Un immenso grazie a Ruggero Mazzilli e sua moglie Amelia.

Francesco Sedilesu

Francesco Sedilesu è sardo, di Mamoiada. Produttore di vino ma anche penna profonda e grande conoscitore della sua isola.


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