Nel 1875 il Marchese Vittorio degli Albizi, che possedeva moltissimi vigneti nella zona della Rufina e in particolare a Pomino, presentò alla commissione del Comizio Agrario di Firenze (che aveva come presidente un certo Bettino Ricasoli) una serie di campioni di quelle che oggi chiameremmo microvinificazioni.
I vini provenivano da varie tipologie di uve che vado a elencare così come riportato nel testo: “Petit Gamais del Beaujolais, Carmenet, Cabernet, Verdot, Pinot noir della Borgogna, Syrrah dell’Ermitage” per le uve rosse e “Semillon, Sauvignon, Pinot della Borgogna, Roussanne, Marsanne dell’Ermitage”. Naturalmente accanto a questi campioni c’erano anche quelli da “uve nostrali”, cioè “S.Gioveto, Canajolo nero, Trebbiano, Canaiolo bianco”.
Queste righe non vogliono essere il preludio ad un articolo storico, peraltro molto interessante, ma semplicemente un modo per far capire che la zona del Chianti Rufina non è un territorio senza storia e radici, ma una delle zone con più Storia (con la “S” maiuscola, visto che è presente anche nel Bando di Cosimo III del 1716) alle spalle, dove praticamente da sempre si è coltivata la vigna con grande attenzione e conoscenza.
Dopo 145 anni il territorio della Rufina ha sviluppato soprattutto la coltivazione “dell’uva nostrale”, in particolare del sangiovese (che per inciso nel 1875 venne valutato “Buonissimo e rappresentante il tipo della localita”),
E anno dopo anno la bravura di questi viticoltori, che arrivano a malapena a produrre 3 milioni di bottiglie (un niente in confronto alle decine di milioni del Chianti) cresce e lo fa soprattutto a “macchia d’olio”, toccando praticamente ogni azienda.
Lo abbiamo riscontrato nei nostri assaggi annuali, mai come quest’anno di alto profilo.
Una ventina di campioni, sia d’annata che di riserva, spalmati tra il 2018 e il 2015, ci hanno presentato un quadro dove le classiche caratteristiche del Chianti Rufina (freschezza, dinamicità, tannicità decisa) si stanno piano piano evolvendo seguendo gli andamenti climatici e portandoci verso vini di importante spalla e concentrazione, ottenendo però armonie tanniche che più si adattano al mondo del vino moderno senza per questo rinnegare la “colonna vertebrale” della denominazione.
Ci siamo trovati di fronte a vini molto più armonici in gioventù, che hanno limato alcuni squilibri dovuti in alcuni casi all’altezza dei vigneti, in altri ad alcune pecche di cantina. Il bello è che mentre i vini delle zone alte diventano più rotondi, quelle delle zone più basse migliorano in nerbo e profondità, segno di una più approfondita conoscenza delle varie fasi in vigna e in cantina.
In particolare i 2018 degustati ci sono sembrati particolarmente adatti ad un consumo “govanilistico”, ad un’immagine più spensierata del vino: sangiovese equilibrati, giustamente tannici, di buona struttura, dotati però di una “simpatica leggerezza” che in passato si poteva solo immaginare . La si perde, anche giustamente, nelle riserve, dove si punta di più sul corpo e la concentrazione, per vini che potranno durare nel tempo. Qui ritroviamo l’anima antica della denominazione, con prodotti austeri ma non rigidi, dotati di notevole complessità aromatica, dove l’uso del legno è quasi sempre ineccepibile.
Come ci siamo detti nella diretta ZOOM e come potrete vedrete dai nostri punteggi, la Rufina dovrebbe avere (anche per l’ottimo rapporto qualità prezzo) una visibilità maggiore, perché vini di questo livello non sono assolutamente secondi a nessuna DOCG dove al centro c’è il sangiovese