Chi dis ch’el vin fa mal, l’è tutta gente de l’ospedal2 min read

Ricordo sempre con piacere la faccia soddisfatta di mio nonno su un letto d’ospedale – sarebbe morto di lì a poco – dopo aver bevuto un bicchiere di vino che gli portavo di nascosto ai medici e soprattutto alla terribile caposala.

 In effetti vino e medicina non sono mai andati molto d’accordo, si ricorderà ad esempio la dichiarazione dell’architetto dell’Asl fiorentina di bandire l’enoteca, in quanto non etica, dal futuro centro commerciale dell’ospedale di Careggi.

 Anche se da qualche anno a questa parte si parla sempre più insistentemente di migliorare la qualità della ristorazione ospedaliera (recentemente sono anche uscite le linee guida ministeriali) il vino resta un tabù.

I motivi sono essenzialmente due. Da un lato c’è il costo, sappiamo che in tempi difficili come questi prevale la spasmodica ricerca della riduzione dei costi: si pensi che una “giornata alimentare” ospedaliera (colazione, pranzo, merenda e cena) ha un prezzo medio di 10-11 euro e ovviamente il sistema sanitario non ha nessuna voglia di farlo salire per un bene voluttuario (e non etico?) come il vino.

Dall’altra c’è la “complicazione” organizzativa per cui il servizio dietistico dovrebbe anche segnalare in  base alla patologia se il paziente può o meno bere vino, e il personale che distribuisce il vitto dovrebbe porre attenzione anche a questa variabile. E poi, diciamocela tutta, per 6-7 giorni (durata media di un ricovero ospedaliero) si può stare anche senza vino.

 

Diverso è il discorso per le case di riposo, lì si è residenti e il momento del mangiare (e del bere) è uno dei più attesi della giornata. In casa di riposo si può bere vino salvo diversa prescrizione medica. Ma che vino? quello in Tetra pack naturalmente, con la scadenza ad un anno dalla “data di confezionamento” (sic). Solo così infatti si soddisfano le garanzie igieniche richieste dalla Asl. Credetemi, è dura spiegare ad un vecchietto che per una vita ha infiascato il vino dalla damigiana, convincerlo a bere il vino confezionato come il latte.

Ma per fortuna si trova anche qualche isola felice: a Gaiole in Chianti per esempio, c’è una piccola casa di riposo dove la ASL non si oppone alla somministrazione di vino sfuso: il vino arriva infatti da una cantina cooperativa storica a pochi chilometri di distanza, con piena soddisfazione degli anziani ospiti. Per loro continuare a bere quel vino è un modo per mantenere un contatto con l’esterno.

Quindi con un po’ di buon senso si ottengono risultati importanti: si accorcia la filiera,  si mantengono intatti i costi, si producono meno rifiuti, il gusto migliora e di conseguenza la qualità  della vita.

Una dritta per la nostra vecchiaia?

Fabrizio Calastri

Nomen omen: mi occupo di vino per rispetto delle tradizioni di famiglia. La calastra è infatti la trave di sostegno per la fila delle botti o anche il tavolone che si mette sopra la vinaccia nel torchio o nella pressa e su cui preme la vite. E per mantener fede al nome che si sono guadagnato i miei antenati, nei miei oltre sessant’anni di vita più di quaranta (salvo qualche intervallo per far respirare il fegato) li ho passati prestando particolare attenzione al mondo del vino e dell’enogastronomia, anche se dal punto di vista professionale mi occupo di tutt’altro. Dopo qualche sodalizio enoico post-adolescenziale, nel 1988 ho dato vita alla Condotta Arcigola Slow Food di Volterra della quale sono stato il fiduciario per circa vent’anni. L’approdo a winesurf è stato assolutamente indolore.


ARGOMENTI PRINCIPALI



LEGGI ANCHE