E’ una bella storiella quella che sto per raccontarvi, dico storiella perché non sarà di quelle che apparterranno alla storia del vino, ma è interessante lo spunto che se ne trae.
Siamo in Francia qualche giorno fa, in una degustazione tra amici operatori internazionali del settore vino, si degusta roba buona francese ma non solo.
Ad un certo punto uno di questi propone una bottiglia alla cieca. In questi casi non è mai facile, può essere un vino prodotto ovunque nel globo ma, ascoltando le sensazioni gustative, si tira ad indovinare. Uno dei degustatori ispirato lo dà per sicuro: è un Pinot Nero di Borgogna e alcuni altri sono d’accordo con lui, ma chi ha proposto la bottiglia li invita a riflettere ancora perché si sbagliano. Si arriva alle strette e parte la scommessa in sterline UK, 100 per la precisione.
Quando si scopre la bottiglia tutti rimangono allibiti; che cos’è? Questa è la domanda che hanno dipinta in volto come gli ebrei nel deserto che scoprono la manna; è improbabile, ma è buono. E’ un Cannonau di Barbagia giocato sull’eleganza, più precisamente di Mamojada, specifica chi ha portato la bottiglia, ma rassicura gli amici nel loro amor proprio dicendogli che la prima volta ha avuto la stessa impressione anche lui. Nonostante i vini siano diversi a degustarli a confronto diretto, uno ricorda gli altri, ma non sa spiegarsi il motivo. Basta l’eleganza, la freschezza, il frutto non stucchevole che lascia spazio alla vinosità, note di fiori, la mineralità nel finale a indurre in errore anche chi gioca in casa?
Ora, per i produttori di Mamoiada, se i loro vini sono scambiati per dei Borgogna non è una gran cosa, con tutto il rispetto per il re dei territori. L’identità territoriale e la riconoscibilità sono indizio di qualità e un grande vantaggio sul mercato; le copie o percepite come tali, hanno vita breve. Si sentono a riguardo, nelle degustazioni “in chiaro”, considerazioni del tipo – vini molto buoni, eleganti, ma non sembrano sardi, della Sardegna non hanno niente -. Qualcuno invece con più acume e imparando dal vino – questi sono diversi dai soliti vini sardi, questa parte dell’isola non la conoscevamo- .
Tutto sommato il bilancio è positivo, ma rimane l’interrogativo: cosa ci azzecca il Cannonau di Mamoiada con i Pinot di Borgogna e aggiungo, con un Syrah del Rodano settentrionale? Ricordo tanti anni fa a Saint Joseph nel rodano settentrionale , nella cantina degli ancora non famosi fratelli Gonon; avevo allora poca esperienza di vini ottenuti da altri vitigni che non fossero il Cannonau che mi aveva svezzato già dalla tenera età e di cui avevo incarnato i profumi e il gusto dell’uva in vendemmia, del mosto in fermentazione nella piccola cantina familiare, l’assaggio rubato dal torchio e il gusto del vino a tavola che mio nonno mi concedeva dal fondo del suo bicchiere perché diceva fa buon sangue.
Tuttavia alla degustazione del loro Syrah in purezza, ricordo vividamente, mi sono sentito a casa. In altre cantine dello stesso territorio non fu la stessa cosa. Era il vino di mio nonno e a seguire di mio padre, era vino come quello di Mamojada, era vino al di là del vitigno e del territorio che pure sono importanti, ma nell’esperienza gustativa vengono dopo. Se il vitigno non è il filo comune che ci unisce, tanto meno il territorio; allora con intelligenza bisogna cercarne un altro, magari rintracciabile, a certe condizioni, in tanti altri territori del vino.
Questo elemento X che ci unisce dal punto di vista gustativo, se cercato e studiato, ci aiuterebbe a svelare per quanto possibile l’arcano, così da trovarci tutti su un terreno comune di conoscenza da cui ripartire, forse, per ripensare il vino. In attesa della scienza si va sull’esperienza, sull’empirismo che, se non è ingenuo, porta sempre ad avere delle buone intuizioni. Piccole cose che ho sperimentato è che basta un pied de cuve portato troppo avanti nella fermentazione prima di aggiungerlo, per stravolgere l’intera massa da fermentare. Stravolgere intendo, non solo la matrice territoriale di un vino, ma il vino in quanto tale.
Semplificando la matrice biologica contenuta nelle uve, negli insetti che vengono a contatto del mosto, nelle pareti della cantina, qualunque origine essa abbia nel complesso, con una selezione dei lieviti anche fatta in casa con il solo alcol, come avviene nel pied de cuve, il vino perde la sua vitalità intrinseca. Il pied de cuve seleziona molto più severamente dei solfiti.
Lo scoprire l’ovvio dato di fatto, che la matrice biologica che da sempre origina il vino, ha una composizione molto complessa e non proviene solo dalle uve, ma anche dall’ambiente di trasformazione, autorizza molti a sostenere la non naturalità del vino e quindi a giustificare l’intervento biotecnologico come una giusta evoluzione di questa fortuita condizione che non garantisce, a loro dire, il risultato.
Questo è un passaggio, naturalità o non naturalità del vino, che manda molti in confusione, ha creato delle vere e proprie fazioni e ha preso a noia tutti quelli che avanzano, ma è un punto molto importante su cui riflettere se si ama il vino; qui infatti ne si vende ne si compra, la cosa vi assicuro mi sta a cuore. Azzardo per questo un esempio forte, valido in linea di principio, assolutamente non paragonabile riguardo il valore della sostanza: la donna e l’uomo partecipano a generare la vita di un figlio, non per questo possono dire di avere il controllo sul processo, più facile è intuire che ne fanno parte e, particolare non trascurabile, ne sono coscienti e responsabilmente ne godono. Se cercassero di avere il controllo totale progettando il loro figlio per fini deprecabili legati all’immagine o ad evitare i difetti documentati dal Lombroso nel suo “Uomo delinquente”, potrebbero generare mostri e già lo sarebbero loro stessi, nel vano tentativo di farlo.
Lombroso fu ispiratore insieme ad altri della bio-criminologia nazista, che attraverso la pulizia razziale e genetica intendeva eliminare “la vita indegna di essere vissuta”. Dopo aver eliminato le razze inferiori, l’ideologia nazista intendeva purificare attraverso la selezione genetica, detta nel campo umano eugenetica, la razza ariana. Se ci fossero riusciti, l’umanità sarebbe stata noiosamente bionda con gli occhi azzurri.
Solo in linea di principio ripeto, questo esempio ci insegna che non si può rinunciare al vino per paura dell’aceto che è il più comune dei suoi mali, anche perché a volte un po’ di acidità volatile, dico solo un po’, può rendere il vino migliore. Anche noi sardi, che abbiamo il cranio dolicocefalo, cioè a forma di botte e botte piccola… (Lombroso/Niceforo docet) possiamo certamente, a piccole dosi, dare un contributo al mondo del vino.
Sarebbe più onesto per gli enologi riconoscere la non totale conoscenza e l’incontrollabilità del fenomenale processo di vinificazione frutto dell’interazione tra uomo e ambiente naturale, che deve essere solo accompagnato con piccoli interventi che non devono minare, ma tutelare la sua complessità biologica. Questi sono umili compiti rispetto alla “vita in azione” dentro il tino, umili ma non umilianti o sminuenti, al punto che se il produttore stabilisce un contatto attraverso i suoi sensi e con rispetto e curiosità li elabora e li confronta ,se vuole, con gli studi fatti, può entrare a far parte del processo vitale e può ricavare soddisfazione dal lavoro fatto, insieme allo stupore di fronte al misterico miracolo sempre nuovo, che si dona nel calice. Un vignaiolo amante si commuove al cospetto della bellezza di cui è fruitore/co-autore e non si specchia narcisisticamente nel suo vino.
Questa complessità imperscrutabile lascia invece inebetito e irritato l’uomo affetto da scientismo, al punto da negare l’evidenza del vino quale frutto che rivela la natura dell’albero e ritenere invece assolutamente necessario intervenire pesantemente per dirigere e assicurare l’andamento del processo, con il risultato di rovinarlo.
E anche qui l’albero si riconosce dal frutto.
Nonostante il “cosiddetto vino”, acquisisca con una basica tecnologia come il pied de cuve e tanto più marcatamente con i lieviti selezionati dall’industria, un intenso, ma alieno corredo aromatico e del gusto, che può assecondare la voglia di dolcezza o qualsiasi altra chimera gustativa del consumatore e stimolare la cervellotica vena descrittiva degli addetti ai lavori, perde però la sua gratuita verve gustativa che regala il piacere di beva e la gioia. Si rischia così nel mercato di ottenere l’effetto contrario e che calino i consumi.
Non sempre il consumatore sa razionalmente cosa vuole, ma conserva incredibilmente la memoria del gusto degli alimenti nel DNA, così dicono alcune autorevoli ricerche. Il DNA però muta in base agli stimoli; se il padre non berrà vino probabilmente neanche i figli e i nipoti. Se berrà un vino bevanda potrebbe preferire in seguito una bevanda più appetibile. Il consumatore andrebbe educato al vino e alla sua verve gustativa prima che ne perda del tutto la memoria, come tanti altri archetipi che l’uomo moderno ha già perso.
Purtroppo pochi ormai la sanno distinguere questa verve, al punto da confonderla (tema di questo articolo) con le caratteristiche esclusive di un territorio, di un vitigno e del suo vino.
Per essere chiaro, io credo che la Borgogna e i suoi vini a oggi, devono la loro fama e le loro caratteristiche distintive, non tanto al vitigno o al territorio, nel senso di come vengono primariamente intesi nell’immaginario comune, ma alla tradizione sapiente di quella comunità che ha retto lo scontro con la modernità, conservando le fermentazioni spontanee e sapendole condurre magistralmente. Prima che il sasso, l’acqua, il sole, la vite, è la matrice biologica che da gusto al vino, questo loro lo sanno da sempre, altrimenti le avrebbero abbandonate. Le fermentazioni spontanee sono l’aspetto che accomuna la comunità di Mamojada con quelle di Borgogna e ne caratterizza i vini, pur essendo naturalmente diversi per tutti gli altri aspetti.
Tutti i territori vocati hanno a disposizione e non dovrebbero sprecare questa risorsa, gli addetti ai lavori dovrebbero conoscerla e saperla comunicare, pena la scomparsa nel lungo periodo del vino dalle tavole. I
l vino è un po’ come l’umanità, da sempre in pericolo: si può dire sia lo specchio e la misura della felicità dell’uomo. Dice nella Bibbia il profeta Isaia a 24,11 “Per le strade si lamentano, perché non c’è vino; ogni gioia è scomparsa, se ne è andata la letizia del paese”, e aggiunge, incredibilmente attuale, in linea con la nuova salutistica frontiera del vino dealcolato, al capitolo 1, versetto 22 “ Il tuo argento è diventato scoria, il tuo vino migliore è diluito con acqua” .
Degustate e meditate gente, degustate e meditate