In tempi non troppo lontani mancavano gli odierni contenitori in acciaio, vetroresina o cemento; il vetro era troppo fragile. Abbiamo qualche traccia sull’uso degli otri di pelle animale, certamente diffuso ma oggi scomparso. Allo scopo di fermentare, trasportare e conservare vino sono stati usati, per millenni, soprattutto la terracotta e il legno. Per quest’ultimo gli esseri umani hanno sfruttato gli alberi più disponibili in zona, o magari cresciuti in luoghi distanti purché lungo rotte commerciali convenienti.
È quest’ultimo il caso della Quercus alba importata dal continente americano per i vini spagnoli più classici: Jerez, dove domina tuttora, e Rioja dove invece negli ultimi decenni ha ceduto un po’ il passo alla Quercus robur. A Madera ho notato del “Satin wood” (Zanthoxylum flavum) impiegato per un lungo affinamento: anche questa una specie legata alla storia e all’economia del vino in questione, essendo diffusa sul continente americano presso le rotte percorse dal commercio storico del prodotto isolano.

In altra occasione ho ammirato le botti di sequoia (“redwood”) usate dalla prima ondata di vinificatori californiani, anche se oggi fuori uso e museificate. In Cile hanno sfruttato il Raulli (Nothofagus alpina) diffuso sulle Ande,impiegato tuttora per dei rossi autoctoni, o tali almeno nel legno.
Ancora più “a portata di mano” dei produttori è il larice locale per lo svizzero Vin du glacier (che non è un “vino di ghiaccio”, casomai uno “Sherry d’alta quota”).
Alla voce “Wood Types” di una delle edizioni dell’enciclopedico “Oxford companion to wine” a cura di Jancis Robinson sono citati storicamente anche il cipresso, l’eucalipto, il frassino e il pioppo; addirittura la palma, che secondo lo storico greco Erodoto forniva le botticelle che scendevano lungo il Tigri e l’Eufrate provenendo dall’Armenia.
Era il V secolo avanti Cristo. Certo è che nel terzo millennio la scelta del legno – se legno ha da essere – è diventata piuttosto il frutto di una decisione enologica, con un occhio alle caratteristiche tecniche ma ovviamente anche ai costi e al marketing/storytelling.

Risulta ultimamente in ascesa la popolarità dell’acacia (Robinia pseudoacacia), apprezzata particolarmente per i bianchi. È comune anche nel nostro centro-nord dove, almeno finora, è apprezzata per il profumo dei fiori e per il miele relativo.
In ogni caso lungo gran parte della nostra penisola, e particolarmente sull’Appennino del versante tirrenico, nelle tante zone collinari e di media montagna legno voleva dire castagno: è sufficiente notare quanti paesi, frazioni o semplici località ne portano il nome, col riforzo di qualche “Marrone” o “Marroneto”.
Molti gli esemplari monumentali, in testa il “Castagno dei cento cavalli” di Sant’Alfio (CT), al centro anche di una recente storia poliziesca di una scrittrice molto in voga.
I frutti offrivano in molte zone i carboidrati di base per l’alimentazione, dando luogo a una notevole serie di preparazioni diverse. Poi c’era il tannino, di cui questa specie è notoriamente ricca, ampiamente sfruttato per la concia delle pelli. Non a caso in Francia il conciatore si chiama tanneur.

Ma proprio per la sua aggressività tannica se n’è quasi abbandonato l’uso in cantina, preferendogli querce di vario tipo e provenienza. Casomai continua a farsi notare tra le viti, come materiale per i pali di sostegno.
Eppure in Toscana da qualche anno il castagno sembra essere tornato ad attirare l’attenzione dal punto di vista enologico, almeno nel mondo scientifico-accademico. Se ne è riparlato qualche mese fa presso la Scuola di Agraria dell’Università di Firenze e si trattava di riprendere le fila di un filone (ops!) di ricerca nato nel 2017 anche se con un nome diverso dall’attuale.
Oggi il progetto ToSca è in fase avanzata e con un finanziamento della Regione e il contributo della Fondazione per il Clima e la Sostenibiltà, nonchè della Federazione delle Strade del Vino, dell’Olio e dei Sapori di Toscana, siamo arrivati al vino nel bicchiere, anche se per ora fuori commercio.
Come ha detto nell’occasione Valentina Canuti, la dottoressa responsabile scientifica del progetto, si tratta di valorizzare un modello di Cultural heritage. Questa eredità culturale dovrà servire a ottenere un prodotto “diverso da qualsiasi altro vino”, nelle parole un po’ forti di Giovanni Cappellini del Castello di Verrazzano (FI), uno dei tre partner tecnici assieme a Podere Scurtarola (MS) e Podere 1808 (PT).
Da notare che, in una regione dominata dai rossi, due di queste aziende stanno lavorando su vini bianchi. Faccio il tifo per loro e per chi vorrà seguirli, anche se siamo ancora in fase di ricerca e valutazione.

L’Università ha già messo su dei panel di assaggio del cui lavoro sentiremo riparlare. L’ambizione è piuttosto grossa, perché attraverso l’utilizzo di “carati di castagno toscano” la speranza è di valorizzare la filiera regionale del bosco oltre a quella del vino.
Si accenna già all’ulteriore sfruttamento del castagno per i caratelli da vin santo (dov’è già tradizionalmente in uso, almeno parziale) e addirittura per l’affinamento di birre (e legno a parte, di quelle prodotte col frutto ce ne sono già diverse). All’interno del progetto le barrique sono state prodotte dai bottai astigiani Gamba, che forse non a caso lavorano in una delle regioni dove il castagno è più presente.

Sull’isola di La Palma, la più remota e la meno turistica delle Canarie, resiste una curiosità vinicola a tiratura limitata, legata all’uso di contenitori di un legno locale per la fermentazione e/o l’affinamento. Si tratta del Pinus canariensis, cheè resinoso e impartisce quindi un tono piuttosto balsamico, contribuendo anche al colore rossastro che caratterizza pure le versioni “bianche”. Si chiama Vino de Tea (che a scanso di equivoci è il nome localedell’albero) ed è una specialità da uve super-autoctone, compresa all’interno della più estesa Denominación La Palma.
Slow Food lo ha imbarcato sulla sua Arca del Gusto come prodotto da salvaguardare.
Un modello identitario?