Caro Citrico, scusami ma sul Barolo ti sbagli!25 min read

Tracciare l’estensione, i confini e i limiti è ovviamente la parte basilare e essenziale della definizione di una denominazione d’origine controllata: su questo non ci possono essere né dubbi né equivoci.

Ed è altrettanto ovvio che la materia, spesso e volentieri, è molto controversa, sia per una questione di correttezza storica e territoriale sia per chiari interessi economici: per pochi metri il valore di un appezzamento e i vini ivi prodotti possono non solo variare ma addirittura decuplicarsi.

Limitare troppo o troppo poco?

Delimitazioni fatte con eccessi di rigore scontentano e ledono gli esclusi mentre danneggiano pure i consumatori, privandoli di bottiglie valide e facendo anche lievitare i prezzi per il restringimento della offerta. Quelle fatte con manica troppo larga invece irritano e fanno persino infuriare la parte “classica” di queste zone, che vedono in  questa generosità un tradimento della verità storica e una diluizione del valore dei loro possedimenti. Per non parlare della pressione al ribasso sui prezzi spuntati creata dall’eccesso della offerta.

Non può sorprendere comunque che sia il Barolo, il vino italiano più prestigioso e con la più lunga storia di alta qualità, la denominazione più interessata da discussioni e analisi (nonché polemiche) su quale sia la “vera” zona di produzione del vino.

Le discussioni risalgono anche a parecchio tempo fa: già nel tardo Ottocento (1879) Lorenzo Fantini faceva ciò che potremmo chiamare il primo tentativo  di definizione e delimitazione della zona con un manoscritto rimasto purtroppo in un cassetto. Negli anni non sono mancati successori che, di solito con punti di vista ben diversi, hanno proseguito questo lavoro pionieristico.

C’erano progetti e proposte già nei primissimi anni del Novecento e diversi altri negli anni Venti del secolo scorso prima della delimitazione definitiva (per l’epoca) del 1932, con l’approvazione della legge nazionale sui “vini tipici”. Norme che sfortunatamente rimasero lettera morta causa la mancata approvazione dei decreti attuativi. Tutto questo può essere seguito in dettaglio nel nuovo, affascinante e autorevole racconto di Alessandro Masnaghetti nel “MGA Barolo Vol.II”, un vero e proprio magnum opus che ho avuto il piacere di tradurre in inglese.

Si sarebbe pensato che prima la DOC del 1966 e poi la DOCG del 1980 avessero posto fine a queste dibattiti, ad eccezione delle accademie e dei bar, ma le discussioni in materia sono tornate alla ribalta grazie (si fa per dire) al dibattito (ovverosia al putiferio) scatenato dalla decisione da parte del Consorzio Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani di aggiungere 10 nuovi ettari di vigneto da Barolo ai 30 programmati per il 2018.

Scelta contrastata e soprattutto oggetto di una polemicissima “Lettera Aperta” di Beppe Rinaldi, titolare dell’Azienda Vitivinicola Rinaldi Giuseppe, pubblicata dal “Corriere della Sera”. Uomo dalle vedute forti, come indica il suo soprannome “Citrico”, ha stilato con una penna imbevuta di veleno una lettera che chiamarla “polemica” è forse troppo eufemistico, visto che la parola “sciagurato” e forse fra le più blande della missiva.

Gli ultimi trent’anni del Barolo

Prima, però, due parole sul mio rapporto con il personaggio. Uno di amicizia e stima: sono piuttosto sicuro che non ci sia  giornalista al mondo che abbia visitato questa cantina con maggiore frequenza, che abbia  accettato con piacere il non sempre condiviso (sebbene sempre cordiale) dialogo con il titolare e abbia parlato sempre bene dei vini (Barolo e non) che rispecchiano un classicismo che non solo mi è sempre piaciuto e continua a piacermi ma che ritengo parte fondamentale della zona e della sua storia.

Ben vengano la innovazione e il desiderio di sperimentare, ma un solido rispetto per la tradizione mi pare indispensabile nei confronti di un vino, il Barolo, che è storicamente il più grande d’Italia e comunque l’unico che, da generazioni, produce bottiglie di livello veramente importante.

Posso ben capire l’irritazione e la rabbia da parte di quei produttori quasi derisi e additati come fossili quando, quasi 30 anni fa, cominciarono le prime chiacchiere sul cosiddetto “nuovo Barolo” e i suoi artefici. Come se quelli che da molti decenni avevano prodotto bottiglie notevoli fossero stati superati e dovessero soltanto adeguarsi al rotofermentatore e alla barrique.

C’erano produttori della nuova leva che andavano in giro per suggerire e a spiegare ai “tradizionalisti-trogloditi” perché dovessero, come prima passo indispensabile, buttare via le loro botti.

Ma rispetto non significa necessariamente reverenza o devozione: cambiano i tempi e un po’ di sana flessibilità mentale non guasta.

L’argomento principale discusso nella lettera è la convinzione da parte di Rinaldi che la decisione (“sciagurata” secondo lui) del Consorzio Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani di aggiungere nuovi ettari di vigneti da Barolo minaccia l’integrità della DOCG, poiché il Barolo deve rimanere un vino” raro”.

Non è l’unica questione affrontata nella missiva, il cahiers de  doleances è veramente lungo e offre al produttore l’occasione di lamentarsi delle tantissime cose che, secondo lui, non vanno assolutamente bene nel grande vigneto a sud di Alba. Le sparate sono tante ma non sempre sono da tiratore scelto, anzi spesso assomigliano di più ai vari fatti di cronaca degli ultimi anni, storie di individui che salgono al punto più alto di un campus americano e svuotano il caricatore di un fucile automatico. Quindi prima di occuparmi del nocciolo dell’epistola passerò in rassegna le fisime, i vari chiodi fissi e le ossessioni del Rinaldi-pensiero.

Il Rinaldi-pensiero

1) l’architettura: “Il neo-gotico, il neo-medioevo, il neo-palladiano e il neo-pop, lasciamoli agli americani”. Dispiace che non siano più disponibili per disegnare le case e le cantine langarole architetti del calibro di Bramante o Borromini e neppure, per citare qualcuno che operava più recentemente o opera tutt’ora, Pier Luigi Nervi o Renzo Piano, ma non mi risulta neanche che queste colline si siano riempite di obbrobri. Comunque sia, la libertà, entro certi limiti (nessuno ovviamente vuole grattacieli a Cannubi), di costruire secondo i propri gusti non mi sembra discutibile. La bella casa-cantina di Rinaldi, ad esempio, mi sembra un ottimo esempio di architettura neo-rinascimentale, quattrocentesca direi, ma il buon gusto non è un dono universalmente distribuito. Per quanto riguarda la frase “lasciamoli agli americani” posso solo dire che insultare gli abitanti del più grosso mercato in assoluto del Barolo, essenziale per la sopravvivenza della zona, non mi sembra molto consigliabile, né un segno di buon gusto e buona educazione. L’intelligenza di questa persona dovrebbe suggerirgli di lasciare agli altri questo tipo di antiamericanismo grezzo e gretto.

2) l’igiene: “Barolo e Barbaresco non dovrebbero nascere o essere proposti in cantine cliniche, volute da norme scellerate, partorite da chi al potere ignora. In Borgogna e in Alsazia vini e legni stanno sulla terra, sulla pietra, sulla ghiaia e i vini  vengono buoni. Se lo sguardo si alza si vedono muffe e ragnatele, anche pipistrelli”. Sul problema del “salutismo”, inteso come ricerca maniacale non della pulizia ma dell’asettico si potrebbe scrivere pagine su pagine, ma questo è un problema che riguarda tutto il settore dell’agroalimentare, non solo il vino e meno che mai il Barolo. E in cui il Consorzio non c’entra in alcun modo.

Per quanto riguarda l’Alsazia, posso dire che ho visitato un certo numero delle cantine più prestigiose (Zind-Humbrecht, Colette Faller ecc.) e ho sempre trovato ordine e pulizia esemplari: questo popolo dopotutto è d’origine teutonica. Per quanto concerne la Borgogna invece, una volta le ragnatele e le muffe, se non i pipistrelli, erano di fatti presenti ma c’era pure una diffusa presenza di brettanomyces, la famosa “merde de poule” che doveva contraddistinguere i vini rossi della regione. Ma si tratta invece di un difetto ormai  quasi sparito, le cantine delle nuove leve non sono asettiche ma sono sicuramente pulite.

3) il paesaggio: “E’ quasi tutto un vigneto, si sono già persi non il bucolico, l’agreste ma i fazzoletti di colore, la diversità a beneficio del monotono, della monocoltura esasperata”. Temo di dover dire che la monocolture “esasperata” (passi questo aggettivo che è tutto un programma di pensiero) è proprio ciò che distingue le grandi zone viticole del mondo, il bordolese non è altro che un oceano di viti a perdita d’occhio e idem dicasi per la Borgogna, ad eccezione, non di “fazzoletti di terra” ma di cave di marmo. Lo stesso si può dire della Champagne.  Luoghi dove sono proprio la viticoltura e i vini eccelsi prodotti che hanno portato benessere a zone prima povere e creato una lunga filiera (ristoranti, alberghi, negozi e via dicendo) di attività collaterali,  rimpiazzando la miseria secolare della campagna con uno stile di vita dignitosa e fermando la fuga dalla zone rurali che ha segnato tante aree viticole dell’Europa. E non mi sembra poco, forse a Rinaldi sì.

4) il nuovo turismo enogastronomico: “Non si dovrebbe far venire i turisti solo per il vino e il tartufo, va mantenuta  la bellezza e l’integrità del paesaggio … dall’Unesco è stato premiato il patrimonio viticolo, non i borghi”. Ho paura che pure in questo caso io non trovi le sue parole molto convincenti, come a Bordeaux (e anche in Borgogna e Alsazia, nonché in Toscana)  i turisti, se vengono, lo fanno per il vino e la gastronomia. Ho visitato i vari borghi del Barolo e molto francamente – spero di non offendere nessuno – non ho trovato granché di interessante dal punto di vista storico o architettonico.

Nulla mi sembra meno probabile del loro impiego come punti di attrazione turistica. E lo stesso si può dire anche della Toscana, dove alle volte i “borghi” (Radda, Gaiole, Castellina) sono addirittura villaggi. Che non attiravano nessuno prima del boom dell’enoturismo. A Montalcino, al di fuori di qualche sparuto visitatore estivo, una volta non c’erano quattro gatti da settembre a maggio. Ora questa campagna è stata ripopolata e c’è una prosperità ben diffusa.

E’ un peccato? Prima si veniva in Toscana solo per vedere Firenze, Siena, Pisa, Arezzo e Lucca, obiettivo per nulla deprecabile. Ora si viene anche per un soggiorno in campagna, per assaggiare cucina e vini e si visita, partendo dagli alberghi di campagna e dai posti di agriturismo, anche le stesse identiche città d’arte. Esperienza più ricca e globale che non avrebbe avuto luogo senza il vino. Come sanno i sindaci delle zone vinicole, che fortunatamente sono insorti poco fa contro la proposta demenziale ventilata nel nuovo piano regolatore regionale di diminuire drasticamente l’importanza della viticoltura. Mica fessi.

5) Il Barolo di “menzione”, ossia i cru: “Abbiamo sempre unito le vigne: i Marchesi Falletti, signori del Barolo, mescolavano le uve di Serralunga con quella di La Morra … è migliorativo per l’armonia ed equilibrio dei vini di vini prodotti di monovitigno ”. Molto discutibile che sia migliorativo e opinione non obbligatoriamente da condividere, ma stiamo comunque parlando delle pratiche di un secolo e mezzo fa. A metà Ottocento, con ogni probabilità, erano sconosciuti pure la scacchiatura, la spollonatura, la sfemminellatura, la cimatura, il diradamento e tutta una serie di altre operazioni in vigna ora ritenute, giustamente, indispensabili. Fino alla fine degli anni Ottanta il diradamento delle uve, non solo in Piemonte ma ovunque in Italia, era ritenuto una vergogna, un delitto contronatura, quasi inconfessabile e da  nascondere. Per quanto riguarda i Barolo cru, quelli prodotti dalle uve di un singolo vigneto, oggetto particolarmente avversato e detestato da parte di Rinaldi, si può solo vedere come  un’evoluzione naturale della notorietà e blasone acquisiti da questo vino a partire dagli anni Sessanta, quando il Barolo cominciava e farsi strada nei migliori mercati del mondo.

6) Sempre sui cru: “E’ migliorativo per l’armonia e l’equilibrio di vini prodotti da monovitigno ma pare che lo si neghi, ed è vietato dichiararlo sulle etichette per timore, omertà, sudditanza o per semplice interessi di lobbies mercantili”.

Che sia migliorativo in certi casi è indiscutibile ma nei casi di vigneti di chiara e spiccata personalità può essere vantaggioso invece l’impiego soltanto delle uve di una singola vigna. E più povera o più ricca la zona per la presenza di Vigna Rionda, Rocche di Castiglione, Cerequio e Vigna Cicala? Basta fare la domanda per avere la risposta.

Dopotutto, i primi cru – e stiamo parlando dell’inizio degli anni Sessanta, non si tratta di una moda o di un fenomeno transitorio – furono prodotti da Beppe Colla, Alfredo Currado (Vietti), Bruno Giacosa, Aldo Conterno e Mauro Mascarello, figure che non ritengo marginali alla storia viticola postbellica. Italianissimi, piemontesi fino al midollo e, dettaglio non trascurabile, autori di vini indiscutibilmente grandi che hanno portato gloria alla regione, alla DOC, alla DOCG e al vino italiano tutto.

Semplicemente falso dire che l’assemblaggio sia “vietato”,  e l’uso di parole come “omertà”, “sudditanza”  e “lobbies” è offensivo e inaccettabile. La presenza sul mercato del Barolo classico, tradizionale, di assemblaggio è massiccio  e la pratica viene seguita anche da coloro che presentano vini cru: Vietti, Giacosa, Aldo Conterno, Prunotto, Fontanafredda, Marchesi di Barolo etc.

I due tipi di Barolo possono benissimo coesistere in perfetta pace e tranquillità. Alla fine è il consumatore, l’acquirente che decide: in base di quale principio gli si può negare questo diritto?

Giusta e comprensibile la rabbia di Rinaldi per la scomparsa della possibilità di mettere “Brunate-Le Coste” su una delle sue proposte, ma mi risulta che si tratti di una regola comunitaria che vieta l’impiego dei nomi di due cru per un singolo vino. Parlare invece di “omertà”, sudditanza e lobbies mercantili” è semplicemente fuorviante perchè il rispetto per il punto di vista degli altri deve prevalere anche nelle polemiche più accese. Se ci fosse la possibilità di una deroga per le etichette storiche, come quella per l’imbottigliamento fuori zona, sarei il primo ad essere favorevole. Bisogna vedere se si tratta di una via legalmente praticabile.

 

Il nocciolo della questione

E’ arrivato il momento di fare una disamina, pacata e approfondita, del nocciolo della lettera di Rinaldi, riassumibile nell’asserzione che la zona, aggiungendo nuovi ettari a Barolo a quelli già esistenti, scelga la quantità anziché la qualità, strada che rappresenta un pericolo potenzialmente devastante per il futuro di questo splendido vino. Cito qualche frase che incarna la sostanza di questa lettera e non la travisa in alcun modo:

La quantità di vigne è già smaccata, è quasi tutto un vigneto.

Siamo ciechi, ci immoliamo scientemente per la moltiplicazione di pani e pesci o per narcisismo. La qualità non sta nell’abbondanza, specie per certi prodotti la cui gerarchia è insita, ineludibile”.

Poi se di un prodotto ne fai molto, lo fai meno bene, sei convinto dai soldi, il denaro convince e corrompe

C’è chi afferma che battiamo i francesi per il numero delle bottiglie

Di questa ultima frase posso solo dire che in vita mia non ho mai sentito questa “affermazione”, per la semplice ragione che è totalmente falsa: i numeri dei vini francesi di maggior pregio e prezzo – Bordeaux, Borgogna, Champagne – sono enormemente superiori alle loro controparti italiane, ossia Barolo, Brunello, Amarone.

Invece, per quanto riguarda i numeri non c’è discussione che sia gli ettari di vigneto a Barolo che il numero di bottiglie abbiano visto una espansione costante da 25 anni a questa parte. I dati statistici parlano chiaro: nell’ultimo quarto di secolo gli ettari sono cresciuti dai 1178 del 1993 ai 1573 del 2002, poi ai 2055 del 2013 ai 2166 del 2017. Le bottiglie invece, 6.480.600 nel 1993, sono diventate 8.711.200 nel 2003, 13.902,404 nel 2013 e 14.194.212 nel 2017.

La domanda da fare però è se questo fenomeno abbia intaccato la qualità. E’ vero che “se di un prodotto ne fai molto la fai meno bene” o che “la qualità non sta nell’abbondanza”, ma dobbiamo concludere che abbiamo assistito alla “moltiplicazione dei pani e pesci”, convinti dal denaro che “corrompe”, con il risultato che la qualità dei vini è percettibilmente scesa?

Dato che ho bevuto sistematicamente questo vino da molti decenni e ho avuto la possibilità di assaggiare  bottiglie anche degli anni Sessanta,  posso solo dire che mi risulta l’esatto contrario. Lo standard di qualità non sia mai stato così elevato e  i nuovi vigneti abbiano dimostrato che le classiche sottozone di maggiore pregio, pur continuando di regalarci bottiglie meravigliose, sono state affiancate da altre aree della DOCG dove si producono vini di sicuro livello qualitativo e di tipicità.

Mi soffermo un attimo su questo ultimo punto: una denominazione, per essere valida, non può offrire solo vini straordinari: nel villaggio di Vosne-Romanée ad esempio  non si produce solo La Tâche o Richebourg e a Pauillac non tutti i vini sono Lafite o Latour. E lo stesso si può dire di villaggi interi: nessuno pensa che a Fixin si possano fare vini uguali a quelli di Gevrey-Chambertin, ma nessuno rimarrebbe deluso dai Bourgogne Rouge di questo villaggio prodotti da Dominique Laurent, Denis Mortet o Lucien Le Moine. E’ sarebbe improbabilissimo trovare a Saint-Aubin l’equivalente di un Chevalier-Montrachet, ma nessuno avrebbe il diritto di lamentarsi di uno Chardonnay ben fatto dalle uve di vigneti come En Remilly, La Chatenière o Les Murgers des Dents de Chien o gli altri vini di Marc Colin o Olivier Lamy.

Disse Wolfgang Goethe: “Il meglio è il nemico del buono” e mai parole furono più appropriate che in questo contesto. Le grandi zone hanno bisogno di grandi vini, ma nessuno può pretendere che ogni bottiglia di Barolo debba essere un Monfortino, un Rocche di Castiglione Falleto, un Monrprivato o un Cannubi Boschis.

La Qualità globale.

Per tornare alla questione della qualità globale: mi permetto di ripetere che, rispetto persino agli anni ’90, quando il numero di case serie, preparate e impegnate iniziavano a crescere in maniera importante, non c’è mai stato un numero di bottiglie di Barolo così ben fatte e convincenti come oggi. Paragoni con le decadi precedenti semplicemente non esistono.

Insieme con Barolo indimenticabili c’erano tante altre etichette che oggi giorno sarebbero giudicate non accettabili per una serie di ragioni. Innanzitutto per le produzioni troppo generose: anche dopo il passaggio dalla DOC alla DOCG, i superi erano normale amministrazione e c’era un giro di damigiane in zona che permetteva a chi volesse superare i limiti regolamentari di farlo facilmente.  In seconda battuta per i diradamenti ritenuti, come già detto,  un’aberrazione.

Inoltre i concetti sulla maturazione delle uve sono molto cambiati  rispetto al passato, quando nessuno parlava di maturazione fenolica o fisiologica. Gli eccessi di acidità e tannicità del passato, se non del tutto scomparsi, sono divenuti decisamente più rari e quindi i vini sono stati accettati meglio dai mercati

Sarebbe facile dimenticarlo, ma bisogna invece ricordare che nel 1991 il prezzo delle uve da Dolcetto d’Alba nei confronti di quelle del nebbiolo da Barolo era solo – approssimativamente – il 10% in meno, cosa che pare inconcepibile oggi quando l’ettaro di vigneto da Barolo può facilmente costare o superare i due milioni di euro. Chi ha viaggiato nelle Langhe negli anni ’80 sa benissimo che, nei ristoranti, nel pranzo della domenica, il pasto più importane della settimana, si vedeva sui tavoli più spesso una bottiglia di Dolcetto (vino attualmente in forte crisi commerciale e a rischio serio di espianto delle vigne quando arriva il momento di ripiantarle) che di Barolo. E neanche i tre millesimi eccellenti della fine degli anni Ottanta (il 1988-1989-1990) hanno cambiato  immediatamente e in modo significativo questo quadro.

 

Ci voleva il nuovo millennio per lanciare in orbita questo vino e non c’è dubbio alcuno che sia direttamente responsabile la nuova e più affidabile qualità media della produzione, ormai conosciuta e ammirata da una vasta platea internazionale. Ammirata anche, e questo è il quarto fattore, grazie ad una nuova consapevolezza dell’importanza dei legni per l’affinamento, di una regolare rotazione di essi e una pulizia costante durante la loro vita in cantina.

Non mancavano nel passato vini con problemi di brettanomyces,  nonché  vini fortemente ridotti e le commissioni di degustazione della DOCG erano francamente molto latitanti nel bocciarli  Non c’è bisogno di essere un amante della barrique, o di ritenere il suo uso indispensabile nella realizzazione di vini di alta qualità per riconoscere che il suo arrivo nelle cantine ha costretto molti produttori, anche coloro che non aveva alcuna voglia o intenzione di usarle, a ripensare il ruolo del buon rovere e la giusta importanza da dargli. Fosse esso barrique, tonneaux o botte di varie misure. E fortunatamente gli eccessi di legni nuovi  oramai sono molto diminuiti.

Il global warming

A queste considerazioni viene spesso posta l’obiezione che stiamo parlando di un fenomeno legato strettamente al riscaldamento terrestre, alle continue annate calde del nuovo millennio. Basterebbe, si dice, un’inversione di questa tendenza climatica, un ritorno alle incertezze del passato, per creare grossi problemi ai produttori, alla zona, ad una denominazione con un eccesso di ettari vitati e di produzione, insomma ad una crisi senza precedenti.

A parte il fatto che la tendenza climatica sembra puntare sul preciso opposto e il problema principale delle prossime decadi sarà  limitare il riscaldamento crescente del pianeta, mi sento autorizzato a dire che non è per nulla accurata e condivisibile  questa analisi della nuova qualità del Barolo. Che la scomparsa delle piogge di fine vendemmia degli anni ’60, ’70 e persino ’90  (il 1991, il 1992 e il 1994 per essere precisi) abbia aiutato i produttori è incontrovertibile. Ma già negli anni Ottanta cominciavano a comparire ottimi vini da luoghi e siti da ritenuti prima o marginali o inadatti alla produzione di Barolo di alto livello. Farò due nomi perché all’epoca venivano sempre citati – con ammirazione e stima – da produttori con la fortuna di possedere parcelle nelle parti più storiche della DOCG. Sto parlando di Elio Altare e Aldo Vajra. Nessuno credeva prima di Elio che un Barolo del vigneto Arborina potesse competere con i migliori esemplari della denominazioni e nessuno pensava che Vergne, a 400 metri di altezza sopra a Barolo, fosse idonea ad una giusta maturazione del nebbiolo da Barolo. Questi scettici hanno dovuto ricredersi e non perché il clima nel frattempo ci avesse proposto stagioni molto più calde ma semplicemente perché fino ad allora semplicemente  non era mai successo. Il segreto di queste ottime bottiglie (che poi segreto non era e non è) è una viticoltura attenta e rigorosa che permette a questi produttori di portare uve di alta qualità in cantina.

Fra i produttori che hanno fatto, con grande rispetto,  i nomi di questi due vignaioli c’è Mario Cordero della Vietti (che coltiva nientedimeno uve delle Brunate, di Rocche di Castiglione, di Villero, di Lazzarito e di Ravera di Novello) e anche un viticoltore di Barolo che si chiama … Giuseppe Rinaldi.

Lo stesso Rinaldi che sicuramente sa, per fare un esempio, che prima non c’erano le viti intorno al Castello della Volta mentre ora ce ne sono e danno un Barolo di qualità incontestabile.

 

Ritengo dunque assolutamente falsa, e quasi diffamatoria, la frase “Se di un prodotto ne fai molto lo fai meno bene, sei convinto dai soldi, il denaro convince e corrompe”. Potrebbe essere vera se si trattasse di un terreno circoscritto e preciso, ma non se si tratta di una intera zona di produzione con un maggior numero di ettari. Non credo neanche per un istante che sia stata spinta da bassi motivi economici la concessione di nuovi ettari in aree poco conosciute ai produttori di buoni Barolo e suggerirlo mi pare calunnioso. Sarà stato ispirato invece dalla convinzione che le nuove sottozone abbiano qualcosa di sicuramente valido da dire e dare.

L’ espansione della produzione del Barolo.

Nominare tutte queste nuove bottiglie richiederebbe troppo tempo ma io personalmente posso citare come gradevolissimi sorprese i Barolo di Serra di Serralunga, di Ravera di Monforte, di Panerole di Novello, di Brandini della Morra, delle Coste a Barolo e di San Lorenzo a Verduno. Tutti vini che smentiscono la teoria che le versioni autentiche di questo vino possano  essere prodotte solo in pochissimi posti a sud di Alba già conosciuti da generazioni.

Andrò pure oltre: sostengo che sia stata l’espansione della produzione del Barolo a spingere al  miglioramento della qualità.

La fama del vino ha creato nuovo interesse ed entusiasmo in tanti posti al mondo dove questo vino era pressoché sconosciuto:  una volta assaggiato e apprezzato ha creato una nuova e molto più importante richiesta.

Non credo nessuno possa pensare che i nuovi ettari in produzione fossero stati richiesti per produrre vini da tenere in magazzino. Ormai i mercati di vino di  alta qualità  non coincidono più con i luoghi di produzione, sono diventati tantissimi e molti mercati emergenti sono divenuti avidi consumatori delle bottiglie più prestigiose.  Solo una maggiore produzione sarebbe stata in grado di soddisfare sia questa nuova clientela sia quella tradizionale. In questo caso qualità e quantità non hanno avuto un rapporto conflittuale, anzi, si sono autoalimentate a vicenda.

I produttori – che mai in passato avevano lavorato così bene – hanno rapidamente imparato che per rimanere sui mercati esigenti c’è un unico requisito imprescindibile: la qualità. Stesso discorso per il Brunello di Montalcino: mai così elevata la qualità nonostante la superficie vitata e la produzione globale maggiori, mai così numerosi i bravi produttori.

Tutta questa evoluzione positiva della zona è stata accompagnata, come era facilmente prevedibile, da una forte lievitazione dei prezzi delle etichette più prestigiose e storiche, ormai  riconosciute ovunque come vere e proprie fuoriclasse, parte indispensabile della cantina del collezionista serio e preparato.

E il gap fra queste, normalmente limitatissime, produzioni e i Barolo “di base” si è molto allargato,

Nessuno pensa, ad esempio, che il Vielles Vignes Francaises possa avere  lo stesso prezzo della cuvée base, ottima fra l’altro, della Bollinger né che, a Vosnes-Romanée, una bottiglia di Aux Malconsorts possa essere acquisita allo stesso prezzo di un Richebourg, anche se il primo vino, spesso davvero eccellente, viene prodotto da uve coltivate ad un tiro di schioppo dalla vigna del secondo.

La forbice

Questa forbice infatti è la certificazione del fatto che un’appellazione abbia raggiunto la massima rinomanza e importanza.

Ma pure questo non va bene a Beppe Rinaldi: “Vedere  questi nobili vini andare da 10 a 300 euro fa pensare, all’aceto balsamico, che va da 3 a 300 euro”. Molto sfortunato questo paragone: l’aceto balsamico a 300 euro è quello “tradizionale”, ossia vero, mentre quello da supermercato a 3 euro è solo una brutta copia creata dall’aggiunta di zucchero caramellato ad un aceto qualsiasi. Si tratta di un esempio lampante di come l’Italia, purtroppo in  troppi casi, non abbia saputo proteggere e tutelare le sue eccellenze gastronomiche. La forbice che ora si è verificata a Barolo è la semplice dimostrazione dell’efficacia della legge della domanda e offerta che esiste da tempo immemorabile e non potrà essere abolita da diatribe giornalistiche.

Questa osservazione di Rinaldi è seguita subito – inevitabilmente – dal solito attacco alla nuova interdipendenza dei mercati del mondo: “ Più la forbice allarga, più mercantilismo e globalizzazione vincono”. Scontatissimo questo attacco alla globalizzazione, che non solo è fin troppo prevedibile ma anche fuori tempo massimo di più di 170 anni. Il fenomeno fu osservato  da Karl Marx nel Manifesto del 1848: Per Marx  era sicuramente positivo, e per quanto riguarda il vino in generale e il Barolo in particolare è stata precisamente la globalizzazione, la creazione di nuovi mercati e sbocchi commerciali che ha permesso l’espansione della produzione, senza alcuno impatto negativo sulla qualità del vino. Anzi, ha assicurato ai produttori, in particolare modo i piccoli, il reddito che permette loro di tirare avanti.

Ormai il Dolcetto è poco redditizio, spesso  prodotto senza prospettive di guadagno. Lo sgonfiarsi del boom del “Super Barbera”, quella fortemente concentrata e internazionalizzata con l’affinamento in barrique, ha fatto ritornare sulla terra i prezzi di questo vino, riducendo margini e rimuneratività. La conseguenza sarebbe stata che senza il grande successo del Barolo molti produttori sarebbe stati costretti e gettare la spugna. Siamo sicuri che sarebbe augurabile  la ripetizione della fuga dalla campagna del primo periodo postbellico, l’abbandono delle terra attirati dall’illusione dell’industria? Forse Beppe Rinaldi potrebbe pronunciarsi in merito.

Sin dai primi tentativi di delimitare la zona nei primi anni del Novecento ci sono stati tentativi da parte di un nucleo duro di aziende a Barolo e Castiglione Falletto di limitare l’area di produzione del Barolo alla cosiddetta (direi autodefinita) “zona classica” ossia,  stranamente … Barolo e Castiglione Falletto. Tentativi sempre rigettati per il bene dell’albese, del Piemonte e dell’Italia tutta.  Spero che non si tratti di una prova,  ultima e malcelata, per tornare alla carica con quel’ improponibile progetto.

La proposta

Alla fine di questa lettera-tirata, “piena di strepito e furore che non significa nulla” (come disse Shakespeare in “Macbeth) arriva una conclusione che, più che illogica, pare assolutamente paradossale: la proposta di allargare la zona della DOCG al territorio comunale di Alba, al sud del Barbaresco e al nord del Barolo, una volta fonte di uva e vino per il Barolo sebbene al di fuori dei confini della legge del 1932.  I veterani della zona infatti citano spesso l’esempio della tenuta Bernardina, ora proprietà della Ceretto, come luogo dove il nebbiolo viene benissimo e in passato  veniva regolarmente impiegato nei Barolo prodotti prima del 1966, anno della DOC. Difficile essere contrari a priori, anche se la zona pare molto estesa e sicuramente non utilizzabile interamente in una revisione della DOCG.

Ho un suggerimento diverso: dato che una buona parte dell’espansione recente del territorio di produzione è avvenuta a ovest, nella ella zona che guarda il Tanaro, proporrei l’inclusione di certe sottozone a Roddino e Sinio confinanti con Serralunga d’Alba: nel caso di Roddino la parte accanto alla MGA Arione, a Sinio la parte a ridosso di due buone MGA del comune, Badarina e Arione. In entrambi i casi fonti di nebbiolo di sicuro livello.

In Francia, vista la sete mondiale di Champagne e l’impossibilità di soddisfare la domanda nel territorio attuale della AOC, le autorità francesi hanno optato per una soluzione ritenuta da tutti sensata: la ricerca metodica e rigorosa in aree limitrofi alla AOC, di terreni e microclimi simili, terroir idonei in poche parole per la produzione di Champagne di qualità e tipicità in cui si potessero fare nuovi impianti. Senza che nessuno obiettasse, polemizzasse o si scandalizzasse.

Beato il paese in cui le decisioni sono prese in base a discussioni pacate, ragionate e ponderate, che poggiano anche su dati scientificamente validi. Senza preconcetti ideologici e fanatismi.

 

Daniel Thomases

Semplicemente il giornalista che ha insegnato a molti, se non a tutti, il mestiere. Una delle vere colonne della critica enogastronomica in Italia.


LEGGI ANCHE