Oramai è chiaro! Per decine di migliaia di locali approssimativi, bar abborracciati e attenti al fatturato, ristoranti per turisti italiani e pure esteri, ristoranti e basta, trattorie di ogni ordine e grado alcolico, supermercati, rivendite di vino, buttiamoci anche qualche enoteca da sbaraglio, nonché per il 94,32% degli italiani e per il 90.02% dei bevitori esteri (fonte Winesurf) ogni vino italico che ha bollicine in quantitativi non omeopatici (tipo residuo di carbonica) viene definito “PROSECCO”.
Questa distorta certezza, nonché certificazione “ad minchiam” è oramai una granitica e sconclusionata sicurezza.
- Sei a Firenze? Ti propongono un prosecco locale!
- Sei a Conegliano o a Valdobbiadene? Se chiedi un Superiore sgranano gli occhi!
- Sei in Franciacorta? Ti propongono un Prosecco franciacortino!
- Sei straniero e vuoi una bollicina italiana? Basta dire la parola magica “Prosecco” e sei a posto.
- Sei negli Stati Uniti? Chiedi un Prosecco e ti porteranno di tutto.
- Sei su Marte? Il Prosecco verde spopola!
- Sei in qualsiasi punto della galassia? Tranquillo che un prosecchino lo trovi sempre.
Tutto questo spesso a prescindere dalla tipologia di vino richiesta o percepita, perché tanto “tutti i gatti di notte son neri” e tutte le bollicine italiane (giorno o notte) son Prosecco.
Detto e non metabolizzato questo, occorre notare che oramai il mondo del vino si divide in due parti: quelli che odiano ogni accenno al Prosecco e addirittura a parti della parola (tipo tifare a Busto Arsizio per la Patria, senza Pro) e che gufano per una colossale débacle commerciale che, come un dilu-vino universale, azzeri la produzione, dall’altra quelli che sperano che il marchio Prosecco serva da traino commerciale al vino italico e al loro in particolare, anche se producono Nero d’Avola.
Per venire incontro a questa seconda categoria (la prima, composta da radical enochic, non conta se non davanti ad un tavolo dove si degusta Champagne) propongo di mettere davanti ad ogni nome di DOC o DOCG italiana la parola “Prosecco”. Così, per esempio, quando uno a La Morra vorrà un Barolo, basta che dica Prosecco e sarà servito.
Se in un mercato con tanti marchi/denominazioni che amano-odiano il Prosecco, tale termine diventa divisivo (politichese docet) e foriero di prese di posizione “a prescindere”, attribuendo ad ogni vino italiano lo stesso, ben conosciuto nome, si risolverebbe alla base la confusione.
Oramai l’Italia, “popolo di poeti, santi e prosecchisti” deve decidere il proprio futuro: o divisi tra migliaia di denominazioni o uniti sotto l’unico simbolo che ci accomuna e ci permetterà di vendere Prosecco di Barolo, Prosecco Brunello, Prosecco di Manduria, Greco di Prosecco etc. finalmente in quantitativi industriali.
Un solo problema all’orizzonte: la DOCG Prosecco Superiore di Conegliano e Valdobbiadene dovrà cambiare nome: troppo lungo, “fastidiosamente logorroico” e inutile aggiungere tutti quei nomi al Prosecco. Dovrebbe decidere: o chiamarsi Prosecco “Di lì”, semplice e intuitivo, oppure cambiare (unica in Italia, notate…) totalmente il suo nome e scegliersene uno agli antipodi, tipo “Prosciutto”. In questo nome si ritrova il tanto l’amato suffisso “Pro” e il resto della parola richiama la sapida vena asciutta e beverina del vino.
Cosa? Dite che potrebbe creare problemi con i prosciutti veri, tipo il Prosciutto di San Daniele?
Basta cambiare nome al Prosciutto, chiamandolo, per esempio, Barolo, e il gioco è fatto.
Naturalmente queste mie riflessioni sono scherzose boutades, mere provocazioni, dovute all’uso spesso improprio e ignorante (nel senso di ignorare cosa sia una denominazione) del termine Prosecco. Se mi perdonerete lo sfogo vi offrirò un prosecchino.