2019 annata basilare per il Chianti Classico5 min read

Nei giorni scorsi, dopo che da mesi sto spigolando tra le cantine chiantigiane e soprattutto dopo aver degustato un buon numero di Chianti Classico 2019 alla Chianti Classico Collection, mi solo lanciato  in un’ affermazione che a molti può essere sembrata eccessiva: “La 2019 in Chianti Classico e per il Chianti Classico è la migliore annata degli ultimi 30 anni”.

Ora cercherò di spiegarmi meglio ma per farlo devo fare un passo indietro. Nemmeno sessanta anni fa il Chianti Classico era un rosso leggero da bersi nell’arco di uno-due anni. Le cose sono cambiate molto nel tempo ma fondamentalmente la denominazione Chianti Classico è l’unica tra le grandi e blasonate in rosso (Barolo, Barbaresco, Brunello, Amarone, Bolgheri, tanto per fare qualche nome) a non essere storicamente nota per un vino importante da invecchiamento ma “solo” per un prodotto di buon corpo, più giocato sulla freschezza e sul poter essere gustato tranquillamente nei primi 3-5 anni di vita.

Questo retaggio storico e soprattutto enologico a partire dagli anni ottanta del secolo scorso è stato vissuto da molti produttori come un peso o addirittura un’onta da nascondere: c’hanno pensato i Supertuscan a “nascondere” al mondo il Chianti Classico “base” e a cercare di cambiare l’identità di un vino che molti ritenevano non adatto al mercato moderno.

Le cose poi si sono indirizzate diversamente  e tramontando i supertuscan la stragrande maggioranza delle aziende chiantigiane, pur credendo maggiormente nel vino d’annata e nel sangiovese, ha cercato rifugio in un vino “punta di gamma” che potesse competere con i rossi importanti sopra citati. La Gran Selezione è stata la risposta commerciale del territorio, un territorio però che ha sempre e comunque, come vino fondante, un rosso di medio corpo e non un vino da lungo invecchiamento.

Lasciate stare che spesso si assaggiano Chianti Classico di 20-30 anni di assoluto valore (recentemente dei 1991 da sballo!) ma fondamentalmente il presunto gap con le altre denominazioni deve essere idealmente e commercialmente colmato con vini più importanti, che spesso però sono muscolarmente più imponenti ma molto meno godibili sul fronte dell’equilibrio, della freschezza, della dinamicità e, lasciatemelo dire, almeno in parte della territorialità.

Una delle regole di Winesurf è che per capire un’azienda bisogna assaggiare il suo vino base, che sia un leggero Bardolino o uno strutturatissimo Barolo e questa regola aurea vale ancora di più per il Chianti Classico, dove non raramente (anche se vi sono molte eccezioni)  i “vinoni”  dimostrano di essere  vini grossi ma non vini grandi.

Per questo non è detto che importanti  annate come 2006, 2010, 2016 abbiano dato di default grandi Chianti Classico ‘annata. Questo perché la concentrazione è solo una delle armi di un vino e non certo la fondamentale se si deve puntare anche alla piacevolezza, alla freschezza, all’equilibrio e ad una intensa e giovanile espressione aromatica. La vendemmia 2019 è stata anche quantitativamente importante e questo ha permesso di portare in cantina ottime uve giustamente concentrate e dotate comunque di una “fresca ma profonda leggerezza” che, specie per vini come il Chianti Classico, è  basilare.

Con alcuni amici produttori mi sono divertito a confrontare i dati analitici della 2018 e 2019, scoprendo che l’estratto secco nella seconda è pari se non superiore alla prima, ma l’acidità è leggermente superiore: questo porta a dei Chianti Classico di ottimo corpo ma già dinamici, freschi e soprattutto profumati.

Se misurate le annate  solo sulla loro durata nel tempo la mia affermazione va ridimensionata, perché non è detto che un Chianti Classico “base” possa invecchiare all’infinito. Magari, ma non è ancora detto, i Chianti Classico Riserva e la Gran Selezione 2019 porteranno a vini da lunghissimo invecchiamento ma, ripeto, per il Chianti Classico annata quello non è il metro di giudizio.

Invece sono sicuro che godendosi un Chianti Classico 2019 nei prossimi 3-5-7 anni si potrà scoprire il meglio di questa denominazione. Lo si potrà fare anche perché la mano dei produttori è molto migliorata nel tempo e tantissimi hanno capito che il vero tesoro è proprio quel vino “base” che magari 20 anni fa era quasi un peso.

Sono convinto che la vendemmia 2019 dimostri anche un’altra cosa e lo faccia grazie alla facilità con cui i produttori sono passati dalle uve ai vini finiti. Qualche volta l’andamento vendemmiale costringe a vendemmie affrettate  e comunque sfortunate per una qualche motivo. Questo porta  a “resettare” i vini, non a correggerli ma a indirizzarli verso ciò che doveva essere ma non è stato, con vinificazioni magari più lunghe o più brevi, invecchiamenti in legni di varia tipologia, selezionando e assemblando in maniera più o meno rigorosa,  in definitiva  rendendo meno evidenti le caratteristiche territoriali del vino.

Nel 2019 questo bisogno non c’è stato e quindi i Chianti Classico, oltre ad essere buoni sono anche espressione vera del loro territorio, di quel microclima, di quel “terroir”. Quindi se assaggerete un Chianti Classico 2019 di importante freschezza o, al contrario che non si basa sulla freschezza ma sulla potenza o sulla rotondità è perché in quella zona il vino viene così e la 2019 lo ha messo in evidenza più di altre vendemmie. Anche per questo la 2019 è la migliore vendemmia degli ultimi 30 anni.

Da questa vendemmia esce fuori in maniera chiara che le  Denominazioni Comunali  o  MGA chiantigiane  abbiano un senso reale solo e soltanto se applicate dal basso, cioè al Chianti Classico e non alla Gran Selezione. Solo puntando sulla “territorialità numerica”, cioè sulla riconoscibilità di un vino prodotto in grandi numeri, il Chianti Classico potrà fare importanti passi avanti e far capire sempre più al mondo quanto sia bello bere un vino giovane, di buona potenza, equilibrato, dotato di grandi profumi, che rappresenti un territorio meraviglioso e, last but not least, proposto ad un prezzo che le altre grandi denominazioni non possono nemmeno avvicinare.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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