A Volterra i buoni vini dei gaudenti etruschi3 min read

“Piccoli produttori etruschi crescono”. Questo potrebbe essere il senso della manifestazione, ormai giunta alla settima edizione, di DiVini Etruschi, diventata l’appuntamento di riferimento del 1° maggio del mondo enoico.

Organizzata a Volterra da Carlo Zucchetti e da un piccolo gruppo di dinamici e promettenti vignaioli locali, l’evento ha messo insieme tre regioni dell’Italia centrale, Lazio, Umbria e Toscana e ha fatto rivivere il mito della “dodecapoli”, ovvero il territorio delle dodici lucumonie etrusche (meglio conosciuto come Etruria) questa volta sotto l’insegna del vino.

Già, perché quando si parla di etruschi e di vino, è sempre bene ricordare che mentre gli antichi greci bevevano per meglio dissertare di filosofia, e i romani dal canto loro bevevano per ricordare le loro vittoriose battaglie imperiali, per gli etruschi il vino era un piacevole mezzo per raggiungere un ancor più piacevole fine: l’erotismo. Gli efebi facevan da coppieri e le etere (prostitute d’alto bordo, non solo belle ma anche di buona cultura), facevano il resto. E così il “pingue tirreno” – questo il nomignolo affibbiato agli etruschi dai romani, allora bramosi di conquiste di nuovi territori – se la spassava in pieno relax.

Ma era chiaro che la pacchia non poteva durare troppo a lungo: greci dal mare, romani da sud e celti dal nord ebbero ovviamente la meglio su un popolo manifestamente più godereccio che bellicoso.

Tornando ad oggi, la rassegna DiVini Etruschi ci presenta circa quaranta aziende vinicole con oltre cento vini in rappresentanza appunto di dodici territori. Date le difficoltà oggettive nel descrivere tutti i vini in degustazione, è d’obbligo una selezione rimandando alle schede tecniche delle aziende reperibili dal programma della manifestazione.

Partiamo da Volterra, dove accanto a produttori locali come Podere Marcampo (da segnalare il merlot “Giusto alle Balze” e il vermentino “Terrablu”), il Podere Mulinaccio e Il Rifugio dei Sogni, troviamo la Tenuta Monterosola, situata tra S. Gimignano e Volterra. Ci troviamo di fronte in questo caso ad una realtà in decisa crescita, grazie anche ad un importante investimento in un territorio finora ai margini delle più conosciute zone vinicole. Monterosola si è ormai imposta a livello internazionale per la qualità dei suoi vini, primi fra tutti “Corpo notte”, Sangiovese e Cabernet Sauvignon con 18 mesi di barrique, e “Crescendo”, Sangiovese in purezza.

Ci spostiamo poi – figurativamente – ad Arezzo dove i più curiosi hanno potuto apprezzare dalla Fattoria di Gratena l’omonimo vitigno autoctono riscoperto recentemente. Il vino si chiama “Siro” (nella versione 50% sangiovese e 50% gratena nero), ha buona speziatura con note evidenti di melagrana.

Andando avanti, notevole la selezione dei vini laziali provenienti da piccoli produttori di Tarquinia, Veio, Vulci e Bolsena, soprattutto per i bianchi a base Chardonnay e Vermentino (vitigni “migranti” come definiti dallo stesso Carlo Zucchetti).

Rimane impresso per la sua mineralità e balsamicità un vermentino 2017 a clone corso (migrante appunto) “Nethun” dell’azienda Muscari Tomajoli di Tarquinia.

Ben rappresentata poi l’Umbria prevalentemente con sei aziende di Orvieto dove emerge un sapiente uso del grechetto, sia in purezza che nell’Orvieto classico.

Torniamo in Toscana con la lucumonia Populonia rappresentata dalla vicina Piombino e Val di Cornia, zona di indubbio valore vinicolo. Interessante la selezione, soprattutto dei rossi uvaggio bordolese. Incontriamo qui Tages (Tenuta Poggiorosso, 40% Merlot, 60% Sangiovese) così chiamato in onore al giovane fanciullo figlio della Madre Terra, colui che visse il tempo necessario per insegnare agli Etruschi le arti divinatorie e della predizione del futuro, armonizzando la natura con il volere degli Dei.

Abbandoniamo la mitologia e dedichiamoci al finale con il Fidenzio 2009 del Podere S. Luigi, 50% Cabernet Sauvignon e 50% Cabernet Franc, colore rubino intenso, naso suadente, bocca di frutta rossa ultramatura, approssimandosi alla confettura. Ma come si dice, dulcis in fundo…

Fabrizio Calastri

Nomen omen: mi occupo di vino per rispetto delle tradizioni di famiglia. La calastra è infatti la trave di sostegno per la fila delle botti o anche il tavolone che si mette sopra la vinaccia nel torchio o nella pressa e su cui preme la vite. E per mantener fede al nome che si sono guadagnato i miei antenati, nei miei oltre sessant’anni di vita più di quaranta (salvo qualche intervallo per far respirare il fegato) li ho passati prestando particolare attenzione al mondo del vino e dell’enogastronomia, anche se dal punto di vista professionale mi occupo di tutt’altro. Dopo qualche sodalizio enoico post-adolescenziale, nel 1988 ho dato vita alla Condotta Arcigola Slow Food di Volterra della quale sono stato il fiduciario per circa vent’anni. L’approdo a winesurf è stato assolutamente indolore.


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