Vino sono, di territorio sardo11 min read

Francesco Sedilesu ha voluto regalarci e regalarvi un brano di una “densità” incredibile, dove racchiude tutto quello che un sardo vorrebbe dire e far sapere al mondo: sulla sua terra, la sua storia, le sue abitudini e soprattuto sul suo vino. Lo ringraziamo.

Raccontare del  vino di Sardegna non è facile, neanche di cibo, niente è facile in quest’isola, a parte viverci. Pensavo al cinema ad esempio, che non riesce a raccontare la nostra vita rurale dell’interno che è identitaria dell’isola, nonostante su questa si concentri ossessivamente eccetto rari casi. Di solito, il film sardo tipo, è  privato di ritmo da  lunghi silenzi e frasi emblematiche che intendono essere citazioni dell’antico codice barbaricino e da immagini iconiche spesso in bianco e nero, stile film autoriali. Ultimamente si vedono film con alla base un’ invenzione surreale, e  sempre più caricaturali, per non prenderci troppo sul serio e se non bastasse si aggiungono le  citazioni  cult degli altri cineasti.

Sembrano dei remake comico-grottesco del  solito dramma, vanno bene come intrattenimento, ma a mio parere non rappresentano la sardità, come pretendono di fare. Un codice, o meglio, un ordinamento di tale valore, la legge del nostro piccolo stato che fù, aveva l’intento di mantenere la pace nelle comunità non certo di mitizzare le ruberie e la vendetta. Meriterebbe un colossal storico per farne  capire l’importanza e l’essenza prima di tutto a noi sardi.

Servirebbe poi riflettere su un tempo intermedio, con l’arrivo delle leggi dello stato moderno, in cui è stato da una parte ideologizzato quale bandiera resistenziale verso il nuovo che avanzava e dall’altra  erroneamente identificato con il codice di comportamento della delinquenza comune caratterizzato da forti esplosioni di violenza, che hanno fatto soffrire e regredire le nostre comunità. Infine, forse,  si potrebbe anche scherzarci su, per riflettere su cosa  oggi ne resta. Dalla comprensione della nostra storia ne guadagneremo sicuramente in dignità e identità.

Il problema nasce quando ci mostriamo al mondo, sia nell’arte, come al ristorante e nel mercato del vino; la paura di non essere ben accetti ci gioca brutti scherzi (eccezioni naturalmente ci sono, in particolare nello sport, la Dinamo, il Cagliari e Barella che non conosce timori reverenziali), eppure nella vita normale non è così.

La bellezza della nostra terra è struggente, vasti territori senza gente, grandi spazi e grandi silenzi, bassa pressione antropica la chiamano ma, quando arrivi in un paese, ecco la vita, la festa. Chissà perché i visitatori di ogni dove, dai nostri paesi non vogliono più andare via, dicono che la qualità della vita è altissima per il cibo e il vino, per i forti vincoli familiari e di vicinato che danno sempre una possibilità anche ai più sfortunati, la religiosità che tiene unita la comunità, l’associazionismo, la cultura, l’empatia con gli stranieri dopo l’iniziale diffidenza, l’ospitalità vista come sacra e soffrono del mal di Sardegna  quando tornano a casa, drogati dalla bellezza della natura.

Tutt’altra cosa rispetto all’immagine degradata e macabra con cui ci raccontiamo, piangiamo pur facendo finta di ridere e ci difendiamo paurosi da un nemico immaginario, dentro ideologiche trincee. Eppure la guerre  che ci riguardano direttamente sono finite. Rimane il combattimento quotidiano da fare contro le nostre e le altrui debolezze e tenere con dignità il nostro passo che è lento, ma non è poi così male, anzi da imitare in vista di un possibile Day After.

Ogni territorio ha le sue feste, io vi racconto le mie, quelle dell’interno in Barbagia. Grandi pranzi e cene  rumorosi nelle feste paesane a base di   pecora, da noi simpaticamente chiamata  aragosta di terra, il bollito, l’umido, accompagnati con pane carasau. Senza vino non c’è festa e usa raccoglierlo il comitato della festa andando da una cantina familiare all’altra, assaggiandoli tutti e commentando con rispetto, perché il vino è sacro e ne va della rispettabilità del vignaiolo. Pochi litri per uno e poi si fa il blend. Se l’annata è buona, potrebbe andare in bottiglia; e che bottiglia! E’ il tripudio del vino di territorio, in piccolo  uno specie di Hospices di Beaune in Borgogna.

Il cibo e il vino a tempo e misura  coronano un momento della comunità che si incontra nel santuario campestre circondato da pascoli e vigneti a fare festa. Il rumore indistinto è di morra, di saluti e dialoghi semplici, di racconto di fatti quotidiani, se si munge ancora  una volta al giorno  le pecore o le si è mandate in secca, se si è data l’ultima spolverata di zolfo per l’oidio prima dell’invaiatura, oppure scambio di opinioni sul riscaldamento globale,  sul reddito senza lavorare, sull’ultimo acquisto della serie maggiore. Dialogo a volte più acceso del solito, come accade in ogni dove, ma senza esagerare. Nascono anche gli amori in queste feste estive, ragazzi e ragazze collaborano, mangiano, bevono, ballano assieme ad adulti e anziani. Non è la festa noiosa di una sola classe di età e vivere è diverso dal chattare. Sogno che un giorno il nostro cinema possa raccontare noi, il nostro territorio, la realtà con l’aiuto della finzione, lasciando perdere l’invenzione,  magari una  bella storia romantica senza morti ammazzati come primi attori, non più prigioniero di miti trasformati in feticci ai fini del botteghino.

Cambiando scenario,  tempo fa, un giornalista che girava per una guida importante dei ristoranti d’Italia, alla mia domanda sul livello della nostra cucina,  mi ha risposto – se devo mangiare bene portami a casa tua, ancora  non siete riusciti a portare al ristorante la vostra cucina casalinga… –.  Anche nei ristoranti  spesso, come nei film, siamo preoccupati di mostrarci, ma noi non ci siamo (ci sono naturalmente anche qui eccezioni e grandi eccellenze).

I cibi icona sono sos hulurjones (ravioli) il porcetto arrosto e sa sevada ( menu tipico della festa comandata) ,  insostituibili certo, ma potremo valorizzare di più la pecora, l’agnello e in particolare i piatti feriali. Butto giù, da semplice buongustaio, qualche idea: una bella minestra de merha (cagliata di latte di pecora, acida sotto sale) e patate, su rosu  risoni di pasta con formaggio filato di pecora, patata frattà patate a fette grosse cotte al dente in acqua e condite con sugo di pomodoro e  ricotta salata grattugiata, su pane frattau che è pane carasau bagnato con il sugo e pecorino a strati e sopra l’uovo, cotto magari a 63 gradi per 55 minuti con il Roner, pasta con i fagioli frente de monza di Tiana, ermulazza in lardu il rafano saltato con il  lardo,  suppa de vasolu pizzudu zuppa di ceci con finocchietto selvatico, ervuzzu minestrone di erbe selvatiche.

Ricette semplici per antipasto (non frega-pasto), il  pane carasau sfregato con l’aglio e il pomodoro, oppure  bagnato con acqua e  spolverato di zucchero, la foglia di lattuga tenera con sopra un cucchiaino di miele di corbezzolo, una fetta di caciotta di pecora  spalmata di marmellata di uva Granatza.   I dolci: sa hasada colostro di pecora cagliato con il limone e miele, su popassinu nigheddu che è  semola con sappa (mosto cotto), miele, noci e uva passa, il torrone di Tonara con mandorle e miele di castagno, i due ultimi consumati tal quali o trasformati in semifreddo. Questi sono solo alcuni, immaginare le varianti, le innovazioni senza stravolgere e ogni territorio ha i suoi, una ricchezza smisurata.

Eccoci finalmente al vino, veramente ne ho già parlato perché è tutt’uno con il territorio nel bene e nel male. Inutile dire che, anche con il vino, soffriamo di una sorta di subalternità culturale e di certo ci avrebbe aiutato avere il nostro Mario Soldati  sardo, un cantore del vino di territorio, un qualche intellettuale che vada considerando il vino oltre la lista di sanità alimentare o di sviluppo economico e se avanti negli anni, oltre i bucolici ricordi.  La provincialità nella cultura porta a volte a considerare i massimi sistemi e a tralasciare le cose semplici custodi dei significati universali. Attuale nell’isola è la diatriba sulla modifica del disciplinare che permette di indicare in etichetta dell’IGT Isola dei Nuraghi i vitigni origine del vino, compreso il Vermentino che ha una Doc e una Docg. Proteste del consorzio e la questione è andata a finire al Tar. Nell’isola non si parla mai di territorio solo di vitigni, le Doc più importanti  ricadono su tutto il territorio regionale e incentrate sui vitigni Cannonau e Vermentino, tutti per uno (il vitigno) e ognuno per suo conto, come è normale vista l’estensione e le differenze tra territori.

Henri Jayer il più grande vignerons francese affermava: “E’ triste che adesso si facciano vini di cepage (vini di vitigno) invece che vini di terroir” . Neanche l’enoturismo può decollare se i territori non hanno un indirizzo, civico intendo. I vitigni, come si sa, hanno cittadinanza internazionale.

Abbiamo una Docg del Vermentino di Gallura, questa dovrebbe essere espressione di un territorio perché ne ha tutte le caratteristiche per particolarità e bellezza,  con i vigneti sulle sabbie di granito che, se lasciate esprimere, donano una mineralità impareggiabile ai vini. Rischia di essere, invece, solo una dicitura in etichetta perché i produttori camminano in ordine sparso. La Doc Carignano del Sulcis ha la fortuna di avere stupende bellezze naturali, le due isolette, i vigneti centenari a piede franco sulla sabbia, vini di tipicità elevata grazie al tradizionale matrimonio terra-vitigno, ma anche qui i produttori non hanno un progetto comune che avrebbe consentito uno sviluppo del territorio tale da oscurare le ciminiere di Portovesme. Le tre  sottozone della Doc  Cannonau sono territori ancora più ristretti e meglio identificati, ma due di queste sono utilizzate ognuna da una sola cantina e questa è la misura, purtroppo, del loro sviluppo.

Progetto comune sarebbe vedersi tra vignaioli di un territorio, fare festa insieme e definire prima di tutto il proprio vino, il suo gusto, la sua identità, per tradizione, cultura, religiosità, aspetti agronomici, tecnici e scientifici, chiedendo la modifica dei disciplinari o facendone di nuovi se serve, riappropriandosi del territorio, amandolo e rispettandolo fieramente.  Se proprio vogliamo fare una considerazione di puro mercato, quando le Doc territoriali sono forti, solo allora,  le Doc e Igt  regionali incentrate sui vitigni sono utili per vendere il vino di più bassa qualità (vino per chi si accontenta di bere il vitigno), come avviene nelle regioni di grande trend. Al contrario se non si da forza ai territori vocati, come dimostra la nostra storia enologica, per il mondo del vino non siamo niente, con buona pace del vitigno in etichetta.

Naturalmente, insisto, perchè un territorio sia tale, il vino deve essere Vino e identitario. Con i vini sfusi fatti in casa di sola uva,  in Sardegna erano noti i territori vocati e si distinguevano al loro interno  le zone particolari. Il vino lo beveva per primo il vignaiolo e naturalmente voleva bere bene, che significa bere intelligente e ogni particolarità di ogni singolo vigneto veniva scoperta e enfatizzata, amata e condivisa nei convivi. Era gioia, era vita. La zonazione, di fatto, era già stata fatta ma, purtroppo, a suo tempo, non è stata cristallizzata con le normative, come è avvenuto altrove in territori di grande elezione. Si è preferito fare scelte politiche e aggregare macro aree all’insegna del vitigno, senza tenere conto della realtà del Vino e si è distrutto tutto o quasi. Il filosofo Roger Scruton nel suo Bevo dunque sono scrive che ci sono due tipi di vino: uno legal e uno real. Buon senso vorrebbe che il vino legale non si opponesse a quello reale che, per sua natura, non si può cambiare a piacimento.

Con la bottiglia , sull’onda di ciò che accade nel mondo del vino globalizzato (seppure ci sono lodevoli eccezioni nei vari territori), per opera di cattivi maestri, per irrazionale paura volendo mettersi al riparo dai rischi di impresa, per ignoranza dell’esperienza di altre realtà similari, per mancanza di prospettiva economica, è il commerciale a dettare  le regole, chiedendo che il vino sia come lo vuole il mercato da bancone. Si incarica l’enologo di trovare un’invenzione (anche qui?!) che attiri l’attenzione del consumatore, mettendo da parte il genius loci e condannando di fatto anche i territori  vocati, all’anonimato. Poco importa che i fatturati si facciano, rischia di essere un risultato transitorio. Rossi colorati e arrotondati che sanno di cingomma alla fragola, legni preponderanti,  vino bianco piuttosto che rosato o bollicine con profumi esotici e gusti  monocorde che non fanno la differenza neanche con il vino della casa del locale.  Henri Jayer: “Se si insiste a fare vini fotocopia lo stadio finale è la Coca Cola. Il vino diventa una semplice bevanda”

Il vino diventa una bevanda senza vita, un feticcio che non ha più le proprietà mitiche di metterti in comunicazione con la terra,  il vitigno, il territorio, il produttore, i compagni di bevuta. Thomas Jefferson diceva che il vino è l’antidoto al whisky, il vino-bevanda è alcol aromatizzato e non è antidoto ma, esso stesso, sostanza che ti aliena e ti distacca da terra e ti porta magari sulla luna, con una prospettiva della terra che ti sembra di abbracciarla tutta, nell’urlante silenzio, in spaziale solitudine.

Brrr…  questa si  è una paura reale.

 

Si ringrazia per le foto

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Francesco Sedilesu

Francesco Sedilesu è sardo, di Mamoiada. Produttore di vino ma anche penna profonda e grande conoscitore della sua isola.


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