Uno sfogo da vecchio: le parole ( e anche qualche cosetta) che non sopporto nel mondo del vino4 min read

Come dice la mia carissima amica Maddalena Mazzeschi specializzata in pubbliche relazioni, sono la persona più refrattaria alle pubbliche relazioni che conosca. Per questo potete anche evitare di leggere questo articolo che parlerà di come, secondo me, tante cose dette e fatte per promuovere i propri vini, oltre ad essere inutili possono essere anche controproducenti.

Sarà la mia gretta e retrograda fobia per le lingue ma quando sento parlare di storytelling mi si annodano sulla testa i capelli che non ho: preferisco di gran lunga lo storytellin perché sono più curioso di sapere com’è la vita di una tellina…

Tornando seri, non è certo facile oggi creare interesse su un vino o su una cantina. Giuseppe Mazzocolin in questa intervista ha detto una cosa giustissima e cioè che negli anni ’80 e ’90 i pochi giornalisti del mondo del vino avevano a che fare con un mondo “vergine” e potevano (anche perché erano di solito molto bravi a scrivere) trovare parole adatte e magari indimenticabili per presentare un vino, un personaggio, un’azienda, una famiglia. Oggi giocoforza si ripetono concetti  già usati e strausati da altri e quando si cercano strade nuove il rischio è quello di usare frasi astruse, che più che avvicinare allontanano il consumatore dal vino.

Pur nella ripetizione ci sono però parole che oramai fanno più male che bene, perché usate, spesso a casaccio,  come esaltazione dello spirito aziendale in ogni contesto. La parola più incriminata è “passione”, utilizzata per presentare il lavoro di qualsiasi produttore di vino. Capisco che per lavorare la terra, col caldo, col freddo, con la pioggia, col sole a picco ci voglia passione e abnegazione, ma quando ti trovi di fronte a produzioni dove il titolare è distante anni luce dal campo, che c’incastra la passione per la vigna? Però ormai se non c’è “passione” non c’è comunicazione e sinceramente lo trovo un termine estremamente negativo, quasi surreale e in certe situazioni pure comico, tipo quando si dice “la passione della nostra famiglia per la vigna” quando il padre ha una fabbrica, la madre non è certo una vignaiola, i figli stanno in azienda dopo lauree in comunicazione o similia.

Capisco che bisogna smuovere le coscienze e “attrarre” il consumatore, però giuro che il giorno che un produttore esordirà dicendo “Faccio questo lavoro per vivere ma mi piacerebbe tanto fare altro” comprerò subito il suo vino.

Altra parola ormai usata come il prezzemolo è “terroir”, che può andar bene quando si parla di zone storiche dove questo termine ha un senso (un nome su tutti, la Langa) ma sentirselo dire riguardo a territori dove magari ci sono due produttori da pochi anni, oppure dove non sono mai stati fatti studi sui terreni, sul clima e dove non c’è una storicità produttiva, sinceramente non solo lascia il tempo che trova, ma suona stonata e fuori luogo.

Sono in questo settore da molti anni e mi sono passate davanti decine di parole che si sono iperinflazionate col tempo, come sta succedendo con passione e terroir. Mi vengono in mente termini come barrique e  autoctono, nell’accezione sia positiva che negativa ( si incondizionato o no incondizionato) che hanno avuto negli ultimi 30-35 anni, ma passione e terroir sono diverse, sono “a monte” dei due termini precedenti, e quindi sono convinto che dovremo sorbircele per tanto tempo.

Veniamo ad un’altra cosa che non sopporto ma che spesso mi fa pure ridere: sono le mail roboanti del tipo “PIncopallo spopola alla fiera X” o “Eccezionale successo di Pallopinco sul mercato X o Y” e via con frasi di questo genere, che lodano in maniera quasi appiccicosa un prodotto o una manifestazione. Diventano  divertenti quando i toni trionfali vengono usati per manifestazioni di piccoli o piccolissimi centri del tipo “eccezionale successo del capocollo zebrato alla fiera del Paballo a Corpicchio” o “Enorme trionfo e tutto esaurito alla Sagra del cecio astigmatico a Pruallo”. Insomma ci vorrebbe un minimo di equilibrio, se non di eleganza nel comunicare.

A proposito di comunicare, ma quelli che vanno ad una manifestazione, mettiamo Vinitaly e postano frasi del tipo “Che meravigliosa giornata” con sotto decine e decine di foto  (in un post ne ho contate anche 110, senza la lode) credono di fare comunicazione?  Pensano che questo serva a far capire cosa hanno fatto, a promuovere chi gli ha fatto assaggiare un vino, gli ha regalato una bottiglia o magari lo ha invitato a cena?

Forse è vero e mi sbaglio io, però a me fa solo ridere e anche un po’ pena.

Per adesso ho finito con le mie lamentazioni, ma non è detto che non me ne vengano in mente altre, del resto invecchiare non migliora la sopportazione del prossimo.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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