Un giro del mondo a base di whisky ( o whiskey)7 min read

E’ ora di fare ordine nella nostra testa sul mondo del whisky. E l’occasione spiritosa si è presentata durante la tappa fiorentina della Whisky Week, quando Claudio Riva, presidente del Whisky Club Italia, divulgatore e profondo conoscitore del pregiato distillato, ci ha accompagnato virtualmente nei quattro paesi chiave: Irlanda, America, Giappone e Scozia.

Che sia nato in Irlanda già lo sapevamo, che differenza ci fosse tra lo Scotch, l’Irish, l’American e il Nippon. Dopo il tour con Riva finalmente l’abbiamo capito.

Claudio Riva

Partiamo dall’ABC: “Il whisky è una base alcolica distillata di cereali – ha spiegato Riva – prodotto da disciplinare con tre ingredienti: acqua, cereale e lievito. La complessità che un whisky può raggiungere è infinita, la sfida della complessità senza aggiungere aromi è stata raccolta dalla Scozia che da sola produce più Whisky di tutte le altre nazioni produttrici del mondo messe insieme. Questo vuol dire che qualcosa di magico lì è avvenuto. Altro aspetto magico è attribuito all’orzo utilizzato, quasi sempre maltato. In Irlanda possono usare anche l’orzo, in America il mais, in Giappone, mais, orzo e malto”.

Scozia vs Irlanda

Siamo partiti dall’Irlanda, primo produttore documentato al mondo, primato offuscato da un solo ma fatale errore: affidarsi solo al mercato americano che quando ha avuto problemi ad importare, ha portato le sue vendite al collasso.

Lo Scotch invece – ha proseguito Riva – hanno saputo venderlo a Londra, in Europa continentale, in Giappone, dove ne hanno addirittura definito uno stile produttivo che quest’anno compie 100 anni. L’Irlanda ha però qualche anno in più sulle spalle: perché si parla per la prima volta di acquavite nel 1324: merito di un vescovo del centro sud dell’Irlanda che si dilettava a produrla sia per uso medico che per uso edonistico, usando materia prima a disposizione, ovvero i cereali”.

Per la Scozia arriviamo invece al 1494: 170 anni di divario produttivo con l’Irlanda, azzerato nel 1899 quando l’importazione americana si blocca. “Troppo whiskey prodotto (dicitura esatta per quello che segue lo stile irlandese ndr), magazzini pieni, un blocco a cui segue quello per la Prima Guerra Mondiale. Poi arrivano il Proibizionismo, la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale. Cinquant’anni di stop alle esportazioni hanno azzerato 170 anni di vantaggio produttivo dell’Irlanda sulla Scozia. Nel 1960 inizia la ripresa del settore e due stili prendono il largo nel bene e nel male: quello scozzese che ha ancora un po’ di energia, quello irlandese fermo da anni anche se la cinematografia americana narra che chi beve whiskey è irlandese, marinaio, capelli ricci e rossi. Sono gli anni in cui il distillato diventa una bevanda elitaria, per i salotti bene. Le poche distillerie rimaste (tre) decidono di unirsi per non morire, creando un mega impianto industriale a Middletown e salvando lo stile storico del whiskey. Per vent’anni si limitano a sopravvivere, finché nel 1995 un irlandese trapiantato a New York, John Teeling, fonda la sua distilleria, ha successo e ne rifonda una nuova nel cuore di Dublino dopo 120 anni”.

Fine della prima parte della storia, che si conclude con la degustazione di un ambasciatore dello stile irlandese, un Single Pot Still. Giallo paglierino, profumo morbido di frutta candita, 46 gradi fruttati, ‘conditi’ con cannella, pepe, speziato. Nulla di aggressivo né al naso né in bocca, in grado di far avvicinare anche neofiti dei superalcolici.

America vs Giappone

Riva continua il tour attraversando gli oceani: “In America il whisky non vince per essere il migliore, perché è obiettivamente meno complesso rispetto ad altri superalcolici, ma vince per bevibilità. Gli americani hanno notoriamente fretta, per loro conta la velocità di produzione degli alambicchi moderni. Questo è lo stile del Bourbon, un nome ispirato alla Bourbon Street di New Orleans, per richiamare un’anima francese, borbone. Se gli scozzesi lavorano con Single Malt, gli americano lavorano con le loro ricette a base di lieviti aziendali tramandati di generazione in generazione. Per essere definito Bourbon un whiskey deve essere per il 51% prodotto da Mais. Se arriva al’80% entriamo nel mondo del Jack Daniels, dolcissimo. A questo si affianca una versione al 60% con una presenza abbondante di segale che dona una componente speziata stimolata dalla distillazione. Tutto questo rende l’America affascinante”.

Per la tappa americana degustiamo un Bourbon Michter’s small batch: color ambra, dolce come ci aspettavamo, profumo di frutta candita, uvetta, pepe, cannella, chiodi di garofano, tanto che al naso potrebbe essere scambiato per un vino passito.

Arriviamo in Giappone, dove si sono innamorati dello Scotch Whisky alla fine dell’‘800, quando gli americani forzando la cultura commerciale nazionale ne fanno la loro bevanda principale.

Ma prima di proseguire urge un veloce sunto su come viene fruito il distillato nei vari continenti.

La bevuta scozzese è liscia, la bevuta americana è on the rocks (versato sopra cubetti di ghiaccio ndr), la bevuta giapponese è un drink a base di whisky e soda chiamato Highball: una parte di whisky e 4/5 di ghiaccio e acqua frizzante, l’equivalente di un Gin Tonic odierno. La sua diffusione sull’Isola si sviluppa grazie alla routine: esci stressato dall’ufficio, tra lavoro e casa ci sono tre bar, perciò bevi tre Highball, che nel tempo si trova anche in lattina, perché è solo whisky e acqua.

Dopo la Prima Guerra Mondiale i giapponesi si chiedono perché continuare a importare Scotch whisky quando hanno la stessa cultura e coltura dei cereali, stessa latitudine, stesso clima, nonché stessa qualità dell’acqua perché mappata grazie alla cultura millenaria del tè verde. Nel 1923 nasce infatti la prima distilleria ai piedi delle Alpi giapponesi, la Yamazaky.

“Il Giappone fa whisky per il suo consumo interno finché nel 2001 qualche bottiglia arriva in Europa, all’interno dei concorsi, nelle commissioni d’assaggio, e boom! Primo posto, primo posto, primo posto… Nasce così il mito del whisky giapponese”.

Il resto del mondo così scopre che lo produce e lo fa pure buono. Come mai?

“Perché com’è nella cultura nipponica, mandano qualcuno per due anni ad imparare come si fa. A tali segreti aggiungono cinque secoli di cultura dedita all’armonia e alla precisione. Il whisky giapponese acquisisce un carattere unico. Se lo scozzese deve avere personalità, il giapponese applica l’arte del blending in modo sapiente”.

E Hibiky, il nostro assaggio giapponese, è espressione massima di armonia e complessità, frutto di un blend di tre distillerie, con acque dalla più morbida alla più dura: base whisky di mais, affinamento in botti di rara quercia bianca giapponese. Color ambra chiaro, naso dai canditi alla cannella, fino alla traccia citrica, con nota pungente alcolica stuzzicante, in un susseguirsi di profumi.

Ultima tappa quella scozzese, di cui abbiamo già detto tutto, sia sulla sua personalità strong (il profumo sale dai calici ben ancora distanti dai nasi) e un acume commerciale sfuggito alla madre patria del distillato. Assaggiamo uno Scotch whisky Kilchoman con netta anima torbata e salina. Colore naturale, ovvero più chiaro rispetto ai “cugini” e non filtrato per preservarne le caratteristiche nette. Qui il palato deve essere allenato e compiaciuto di fronte a un prodotto dove i paragoni sono impossibili da fare.

Barbara Amoroso Donatti

Appassionatissima di vino e soprattutto “liquidi con qualche grado in più”. Punto di riferimento del giornale per tutto quanto riguarda il mondo dei superalcolici.


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