Teroldego: prove convincenti del “giapponese”3 min read

Tutte le volte che degusto i Teroldego non  posso fare a meno di pensare ai giapponesi. Non perché questo vino sia molto conosciuto e apprezzato su quel mercato, ma perché mi viene da fare il paragone tra i vini rossi del Trentino e i giapponesi che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, rimasero per anni nascosti perché non sapevano che il conflitto era finito e avevano perso.

I rossi trentini mi fanno un po’ quest’effetto: hanno perso “la guerra” contro l’avanzata dei bianchi, ma continuano a combattere  ”porta a porta” anzi, “vigna a vigna”. Forse fanno finta di niente o forse sperano che l’invasione dei bianchi si possa interrompere, ma in realtà parlare di vino rosso in Trentino è spesso quasi un controsenso. Un dato per capire : nel 1980 le uve rosse coprivano l’80% della superficie vitata, oggi sono arrivate al 26% e meno male c’è il pinot nero che grazie all’utilizzo nei vini spumanti sta crescendo leggermente.

In questa situazione  c’è però un vitigno che sta tenendo la posizione praticamente da sempre, il teroldego. Nel 1980 rappresentava il 7% del totale ed oggi, dopo quasi 40 anni, è passato al 6.1%, pari a 634 ettari vitati. Ha quindi tenuto botta alla grande  e assaggiandolo si capisce perché: anche se il disciplinare propone rese da urlo, che possono arrivare a superare i 200 q.li per ettaro, questo vitigno ha una sua profonda nobiltà e la esprime soprattutto nella Piana Rotaliana, ma anche nei nuovi vigneti posti in collina.

Quando è che un vitigno ha quarti di nobiltà? Oltre al fatto di produrre ottimi vini, per me anche e soprattutto quando lo si riconosce, sia in vini giovani che in prodotti più maturi e importanti.  Il Teroldego in particolare lo si riconosceva anche quando era schiacciato da dosi non certo omeopatiche di legno.

Il Teroldego ha caratteristiche  uniche:  una  tannicità importante e spesso spigolosa (dovuta in buona parte a rese eccessive e quindi a scarsa maturazione fenolica),  una “non” colorazione, in quanto spesso è di un porpora profondo e cupo che tende al nero, un’aromaticità tra la mora e la liquirizia, con molte altre nuances che contribuiscono a renderlo, appunto, riconoscibile in ogni caso.

Assaggio e amo il Teroldego  da tempi non sospetti (diciamo attorno alla metà degli anni settanta)  e l’ho visto salire e scendere sulle montagne russe della iperdiluizione e della superconcentrazione, seguendo mode e mercati che avrebbero distrutto uve meno importanti e meno radicate su l territorio.

Sono quindi felice  di constatare che i Teroldego degustati quest’anno hanno fornito prove molto convincenti, soprattutto nei vini di due vendemmie calde e particolari come la 2015 e la 2016. Le cose però che ci hanno dato maggiore soddisfazione  sono state  notare come i buoni Teroldego vengano prodotti sia dal piccolissimo produttore che dalla grossa cantina sociale e  constatare la notevole diminuzione dell’uso del legno in quelli più importanti.

Il primo fatto porta ad avere sul mercato ottimi Teroldego, dinamici, di buona struttura e profumati, a prezzi veramente concorrenziali, la seconda conduce a vini  che non perdono niente delle capacità di invecchiamento ma guadagnano molto in  ampiezza e piacevolezza nei primi anni di vita.

Una terza cosa, forse la più importante di tutte, è che si stanno affermando le nuove generazioni in cantina: oramai la stragrande maggioranza dei piccoli produttori di Teroldego è attorno ai 30 anni e questa è una garanzia di continuità per questa denominazione e, permettetemi, per il vino Trentino.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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