Stampa estera a portata di clic: La Revue du Vin de France n.6449 min read

Due panciute bottiglie di Châteauneuf-du-Pape annunciano il servizio-clou di questo numero, dedicato appunto al “vino dei Papi”. Gli altri titoli principali della copertina (come sempre affastellata di annunci) sono  per la nuova generazione dei vignerons d’Alsazia e il fenomeno, sempre più imitato, dei Vins de France. Si tratta dei tre articoli sui quali ci soffermeremo maggiormente, limitandoci a dar cenno dei numerosi altri che arricchiscono questo numero. Dopo l’édito di Saverot, anch’esso dedicato allo Châteauneuf-du-Pape , nel quale evoca una favolosa degustazione al Mont-Olivet, e al grand entretien, con Fabien Duperray innamorato di Fleurie, le notizie dell’Actu: è sempre allarme esportazioni per i vini francesi, mentre arrivano i Wine Angels, la nuova associazione che si propone di stimolare gli investitori motivati a diventare comproprietari di Domaines viticoles, la choccante notizia del vigneron languedocien preso a fucilate dal vicino mentre spruzza il rame nella sua vigna- inquietante esempio del sempre più diffuso agribashing.

Rimaniamo nel Sud della Francia per scoprire il terroir del famoso Châteauneuf-du-Pape. La grande degustazione seriale di questo numero mette a confronto due annate, la 2016 e la 2014: la prima, annata eccellente, in una serie di annate ricche e voluminose, figlie del riscaldamento globale degli anni duemila, l’altra, una delle poche annate gracili e meno cariche di alcol, a causa del meteo capriccioso, come quella del 2008, meno considerate, ma di cui il tempo sta mostrando il valore. A confronto le grandi cuvée uniche (Rayas su tutte, 20/20 in entrambi i millesimi), le cuvée tradition, che molti Domaines continuano a proporre orgogliosamente (il Clos du Mont-Olivet, con 18.5/20 la 2014 e un soffio in più la 2016 e  il Mas Saint-Louis in evidenza), le cuvées spéciales, che intendono esaltare le selezioni parcellari (Les Safres del Clos du Caillou e la cuvée Prestige di Roger Sabon su tutte).

La 2016 si conferma nella sua eccezionalità : la qualità è eccellente in modo omogeneo, con alcuni vini che ancora mostrano una giovinezza insolente. La 2014 conquista con la sua freschezza, appena offuscata da una volatile “borgognona”. Cresce il mourvèdre, favorito dal riscaldamento climatico, mentre alcuni, come Christophe Sabon, del Domaine de la Janasse, introducono delle varietà antiche, come il muscardin, simile al mourvèdre ma con meno alcol.

Intanto l’AOC Châteauneuf-du-Pape, in partenariato con la chambre d’agriculture della Vaucluse sta creando il suo conservatorio, nel quale garantire la perennita delle varietà antiche, come il muscardin, la cunoise o il vaccarèse, ma anche per assicurare la diversità genetica delle varietà più utilizzate, come la grenache  e il cinsault.

Il servizio sullo Châteauneuf-du-Pape è poi arricchito e completato da un bell’articolo di Roberto Petronio e Denis Saverot  su Emmanuel Reynaud, proprietario dello Château Rayas e icona della denominazione, e i suoi vini, prodotti nella sua tenuta principale  e in quella dello Château des Tours, dove Reynaud ha mosso i suoi primi passi di  vigneron. L’uomo forte del vino di famiglia era il nonno di Emmanuel, poi, nel 1978 prese il timone di Rayas lo zio, Jacques, che, essendo senza figli, lo nominò suo erede universale. Ricevuto il suo terzo della proprietà, Emmanuel acquisì gli altri due da due suoi zii. Ha sei figli, tutti cresciuti in ambito agricolo. Chi gli succederà non si sa ancora, ma la proprietà non sarà divisa: gli altri figli saranno compensati diversamente, anche con le migliaia di bottiglie pregiatissime che Emmanuel accumula ogni anno in cantina.

Subentrato allo zio nel 1997 (probabilmente l’annata 1995 era stato già prodotto da lui), Emmanuel diede subito una forte impronta personale alla conduzione di Rayas, che non fu immediatamente capita dagli appassionati ammiratori dei vini dello Château. Potature severissime dei suoi ceppi à gobelet per rinforzare il legno contro il vento, la creazione di piccoli parasole di foglie per proteggere i grappoli dal sole troppo forte, la conservazione dei racimoli da utilizzare eventualmente nella vinificazione per accrescere l’acidità naturale. Insomma un modo tutto proprio di condurre la vigna diversissimo da quello degli altri vignerons della zona. E anche durante la vinificazione Reynaud, che rivendica una pratica dolce della vendange entière,  ha sviluppato modi propri, come la regola di non lasciare mai vuoti i suoi fusti e riempirli subito col vino nuovo dopo averli svuotati di quello precedente. Oltre a Rayas, la famiglia possiede anche lo Château des Tours, a Sarrians, nel terroir di Vacqueyras. Tra le due proprietà le etichette prodotte sono numerose. Allo Château Rayas , bianco e rosso, si aggiunge un altro Châteauneuf-du-Pape, Pignan, e i Côtes du Rhone dello Chateau Fonsalette.Allo Château del Tours, oltre al Vacqueyras che porta il suo nome, diversi altri Côtes du Rhône e Vins de Pays de Vaucluse.

Caroline Furstoss e Romain Iltis delineano il ritratto della nouvelle vague del vino alsaziano. In cinque dei sei Domaine stellati dell’Alsazia sono subentrati i giovani della nuova generazione, ma, al di là di questo ricambio molto significativo, si assiste a un rinnovamento ben più ampio nella regione, che sta evolvendo verso nuove pratiche e  la ricerca di nuovi stili . Un nuovo spirito collaborativo sembra aver investito il mondo delle vigne con la nascita, nel 2016, del gruppo dei Jeunes Vignerons d’Alsace. Due le regole di accesso: avere meno di 40 anni, ed essere indipendenti, praticare una viticultura durable e mettere avanti i vins de lieu. Ne è nata anche una nuova carta dei lieu-dits, finora incompleta,  risultato di un lavoro di quattro anni diretto da Denis Hebinger con l’aiuto degli organismi locali: i lieux-dits censiti sono più di 300 e 51 i grands crus.

Tra i “dignes héritiers”, naturalmente è Marcel Deiss, uno dei fondatori del gruppo dei Jeunes Vignerons: continua la pratica della complantation  piuttosto che l’approccio monovarietale, nell’intento di valorizzare al massimo l’identità dei terroirs di Bergheim: 18/20 al suo Mambourg Grand Cru 2016, anche top score della degustazione. Altro nome che mi piace segnalare è quello del Domaine Schoffit a Colmar, dove il giovane Alexandre, oltre a valorizzare l’umile chasselas ha spinto Rangen de Thann ai vertici.

Ma i nomi nuovi sono molti: appena arrivata al Domaine familiare, Céline Loberger  porta avanti insieme col padre 8 ettari di vigna in biodinamica a Bergholtz: 15/20 per il suo Pinot noir Nuances 2016. 16/20 ha raggiunto il Riesling grand cru Spiegel 2017 del Domaine Eugene Meyer, tra i pionieri della biodinamica in Alsazia,  dove si è ora installato  il giovane Xavier . Tra “i riformatori” vanno segnalati i fratelli Bott a Ribeauville, che hanno dato nuovo impulso al Domaine del padre Laurent: eccellente il loro Riesling Grand Trio (16.5/20), una cuvée che assembla tre grands crus di Ribeauville. Altrettanto degno di nota  il Domaine Dietrich 1620, nel quale i fratelli Alexis e Léonard, dopo esperienze a Haut-Brion il primo e presso David Duband in Borgogna l’altro, elaborano dei vini fortemente identitari a Dambach-la-Ville: anche un ottimo Crémant d’Alsace  Blanc de Noirs (16/20). Cresce la biodinamica, e crescono anche le macerazioni prolungate dei bianchi e i vini orange : tra questi Jérôme Neumeyer col suo Muscat Bruderthal e Mathieu Deiss al Vignoble du Rêveur .

I vini macerati ci offrono lo spunto per parlare ora dei Vins de France. Una nuova moda? Certo ormai le etichette con questa denominazione generica sono diventate parecchie. Attenzione però: accanto alla gran quantità di anonimi vini industriali, ci sono molti vignerons, anche con una grandissima reputazione, che preferiscono rinunciare alle AOP a cui avrebbero diritto per seguire strade diverse. Un fenomeno non del tutto sconosciuto anche da noi, almeno qualche tempo fa.

Ci sono  grandi personaggi, come Louis-Benjamin Dagueneau (figlio del compianto Didier) che ha declassato  il suo vino-bandiera, il Silex (che comunque si vende a 130 euro la bottiglia), o Mark Angeli, con il suo Vieilles Vignes des Blanderies . Entrambi delusi dal mancato riconoscimento da parte dei comitati di degustazione delle rispettive denominazioni, ritengono che i cahiers de charges  delle loro AOC siano diventate un ostacolo per la qualità (eccessivo produttivismo, autorizzazione di pratiche semi-industriali) e sono diventati punti di riferimento per i ribelli dei Vin de France. Ma le motivazioni dei vignerons sono anche altre. Alcuni non possono fare riferimento alle proprie AOC perché vinificano le loro uve in cantine fuori del loro terroir, come l’eccellente Baudoin (17.5/20) del Domaine François Chidaine, uno chenin che non può rivendicare la sua denominazione Vouvray perché vinificato nella vicinissima Montlouis.

Ci sono gli iconoclasti, giovani produttori che vogliono essere liberi di praticare strade diverse (come assemblages di uve bianche e nere, vendemmie tardive, ecc.): il melon de Bourgogne Medolia del Domaine Bonnet-Huteau, ad esempio, ben diverso dai soliti muscadet della sua regione (15.5/20).

Poi ci sono i vini cosiddetti naturali e soprattutto gli orange, come quello raffinato prodotto nel Minervois dal Domaine de Courbissac (muscat, marsanne , grenache blanc e gris, terret nel blend), 16/20. C’è poi il ritorno ai vieux cépages, ormai quasi scomparsi e non autorizzati dai disciplinari delle AOC, come il carignan blanc nei Coteaux d’Aix-en-Provence: il Cante Gau del Domaine de la Réaltière  assembla  le uve di vecchi ceppi coltivati in biodinamica con ugni blanc e sémillon (16.5/20).

Domaine_Bonnet

Diversi produttori, che la RVF definisce gli “sradicati”, coltivano uve fuori zona o adottano modi di vinificazione di altri territori (16/20 per il Matris MMXVIII del Domaine de l’Écu, uno chenin coltivato nel Muscadet, patria del melon). Per finire ci sono i négociants che acquistano uve in zone diverse e fanno assemblaggi arditi tra varietà di differenti terroirs: ad es. il Triangle de Guffens (chardonnay della Borgogna, viognier del Lubéron e sémillon di Barsac) prodotto da Jean-Marie Guffens, icona del Maconnais (15/20).

Per concludere una rapida scorsa agli altri articoli. Pierre Casamayor, per la serie “De vigne en cave”, incontra Louis-Fabrice Latour della celebre Maison borgognona,e presenta una verticale del Corton Grancey di proprietà della famiglia: 19/20 per 1977 e 1990, mezzo punto in meno per 2003 e 2010. Roberto Petronio mette a confronto, per “Une appellation, deux styles” , due grandi rossi toscani, per la verità non della stessa denominazione: il Carmignano ris. Villa di Trefiano dei Contini Bonacossi, e il Tenuta di Valgiano  (sei millesimi, dal 1999 al 2016). Sophie de Salettes delinea il ritratto dei vini dell’AOP Saint-Pourçain,nell’Auvergne,  un tempo celebrati e oggi meno conosciuti: gamay, la varietà col maggior numero di ettari dedicati,  e pinot noir per i rossi, chardonnay, tressailler (il sacy della Yonne) e sauvignon blanc per i bianchi. Poi le pagine dei columnist, le rubriche  (duello tra grandi piemontesi e toscani nelle aste) e il débat autour d’une bouteille: un rosso della Languedoc, La Boda 2013 del Domaine d’Aupilhac. Dibattono Laurie Matheson e  Denis Saverot.

Guglielmo Bellelli

Nella mia prima vita (fino a pochi anni fa) sono stato professore universitario di Psicologia. Va da sé: il vino mi è sempre piaciuto, e i viaggi fatti per motivi di studio e lavoro mi hanno messo in contatto anche con mondi enologici diversi. Ora, nella mia seconda vita (mi augurerei altrettanto lunga) scrivo di vino per condividere le mie esperienze con chi ha la mia stessa passione. Confesso che il piacere sensoriale (pur grande) che provo bevendo una grande bottiglia è enormemente amplificato dalla conoscenza della storia (magari anche una leggenda) che ne spiega le origini.


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