Quando “l’irripetibile” Campora si affianca a Maradona e a Freddy Mercury10 min read

Partiamo dalla fine.

Michael e Christopher hanno giurato e rigiurato che bottiglie come quelle non ne hanno più. Le hanno cercate ovunque, in cantina, in giro per l’intera tenuta, dagli amici più stretti di papà Riccardo ma di quelle annate non vi è più traccia. Semplicemente terminate.E’ stato quest’ultimo commento a far comprendere ai presenti che quella serata di febbraio sarebbe stata, per molti versi, irripetibile.

Il dizionario Treccani riporta: “Irripetibile: che non si può ripetere, cioè che non può accadere, manifestarsi una seconda volta”.

Due momenti irripetibili nella mia memoria.

Freddy Mercury canta Bohemian Rapsody nello stadio londinese di Wembley, davanti a 70.000 persone durante il  Live Aid, indimenticabile concerto rock organizzato da Bob Geldof.

E’ il 13 luglio 1985.

Io potei ascoltre quel “live” solo alcuni giorni dopo, in un programma radiofonico condotto da Red Ronnie.

Irripetibile: Freddy Mercury storica voce e anima dei Queen, non è più tra noi.

Quello stadio culla del calcio Made in British è stato demolito nel 2003 per poi essere completamente rifatto. Quei concerti pieni zeppi di leggende del rock esistono ormai solo su You Tube nella sezione “Ricordi”.

Diego Armando Maradona è in area di rigore, salta colpendo la palla con il pugno teso anticipando di un soffio il portiere inglese Shilton e segna uno dei goal più famosi della storia del calcio.

La “Mano de Dios”, come la ribattezzerà lui stesso qualche tempo dopo.

E’ il 22 giugno 1986, siamo al Mondiale di calcio in Messico e Diego, complice anche un secondo meraviglioso goal definito del “secolo”, schianta da solo la rocciosa armata britannica, portando l’Argentina in semifinale. Io ero incollato davanti alla tv quella sera e sognavo di riuscire a fare 50 palleggi con la pallina da tennis, emulando “El pibe de oro” quando si allenava da solo nell Stadio San Paolo.

Irripetibile: oggi la tecnologia sportiva annullerebbe quel goal nel tempo fisico di gridare: “V.A.R.” e disegnare in area con gli indici delle due mani, un rettangolo a mo’ di schermo.

Diego è stato rapito dagli alieni nel pomeriggio del 17 marzo del 1991 dopo un controllo antidoping (positivo). Al suo posto questi sedicenti “marziani” ci hanno lasciato un ometto grassoccio, isterico e antipatico che sembra uscito da una serie televisiva sui Narcos messicani del cartello di Sinaloa.

Un salto indietro nel tempo

Riccardo…Riccardo? E dai muoviti! Se non ti sbrighi, ti perdi la vista con il tramonto. Quello tra poco se ne cade dietro le colline”.

“Arrivo, arrivo…lo sai che odio camminare, vado in auto anche a prendere il giornale e a giocare la Sisal”. “Allora che te ne pare?”

“Ma quella è San Gimignano, sono tutte torri”.

”E si ma non guardare solo le torri, guarda un po’ l’azienda che sta qui sotto come è messa?! E la proprietà si estende ancora fino a quell’altro casolare laggiù”.

Sorride Riccardo. “Vabbene dai ci faccio un pensiero”.

Ci fai un pensiero?? Riccà qui non c’è nulla da pensare, la devi prendere non fare bischerate…fanno una Vernaccia che ti dico”.

Allora facciamo così, la prossima volta che veniamo qua, ci saliamo in automobile. Io tutta sta camminata non me la voglio più fare”.

Me la immagino cosi quella storica chiacchierata tra Riccardo Falchini, giovane imprenditore edile fiorentino di buona famiglia ed un suo caro amico che resterà senza nome (qualcuno dice che fosse Giacomo Tachis anche se la storia vuole che i due si incontreranno un decennio più tardi dagli Antinori per diventare grandi amici).

Siamo nel 1964 e Riccardo quella proprietà la acquisterà insieme a suo fratello, anche se in effetti lui ne avrebbe voluta una nel cuore del Chianti Classico, magari a Greve o a Panzano ma di fronte a quello spettacolo naturale ed artistico visto in quel tardo pomeriggio di metà primavera, non volle esitare.

Ritorno agli anni ‘80.

Sono passati sedici anni e di strada ne ha fatta l’azienda agricola della famiglia Falchini, grazie soprattutto al contributo ed alla amicizia di Giacomo Tachis.

Fu proprio il “Dottore” a proporre a Riccardo Falchini di piantare il Cabernet e lo Chardonnay. Siamo all’inizio degli anni ’80.

A sentir parlare di Cabernet Sauvignon Falchini avrà spalancato gli occhi ma poi, ripresosi dallo stupore, avrà anche provato a dire che quei vitigni erano proibiti, erano “foresti”, che lì non si era ancora pronti a trattare con gli internazionali.

Ma Giacomo Tachis era solido nelle sue convinzioni (e visioni), dalla sua aveva già diversi esperimenti che, in modo inequivocabile, lasciavano presagire il raggiungimento di grandissimi successi internazionali (il Sassicaia con il Marchese Incisa della Rocchetta e il Tignanello con gli Antinori, giusto per citarne un paio). Ciò, infatti, era bastato a spingere già molti vignaioli illustri ad aprire la porta (e la vigna) agli “stranieri”, per vedere se questi potevano funzionare davvero così bene in quei territori.

Anche i Falchini, dunque, divennero parte di quella corrente di rinnovamento del vino italiano che gli anglosassoni, capeggiati da giornalisti come Burton Anderson e Nicholas Belfrage, definirono “Supertuscans”.

E così proprio mentre Mercury scendeva dal palco del live aid, la prima bottiglia di Campora trovava posto in cantina (1985). E’un blend di Cabernet Sauvignon e piccole percentuali di Merlot.

Dopo soli due anni (1987) arrivò il Paretaio, fatto con il Sangiovese ed una piccola percentuale di Merlot.

Tutti tagli nati come Vini da Tavola, che dovranno attendere il 1993 per essere ufficialmente riconosciuti dalla legislazione italiana e potersi fregiare della denominazione Toscana IGT in etichetta.

Ritorno al presente con l’incontro con “I Campora”

E’ il naso che aiuta a trovare, dopo alcuni passaggi olfattivi compiuti in tutti i vini, una matrice comune, un “fil-rouge” sensoriale: il territorio.

In particolare è la sua tetragona mineralità che, da una iniziale matrice scura e compatta della annate più lontane, scala via via verso note più chiare e leggere.

Solo dopo questo doveroso tributo olfattivo, arrivano le evidenze tipiche del vitigno (Cabernet Sauvignon al 90-95%, il resto è Merlot).

Si riescono pertanto a riconoscere e apprezzare le erbe aromatiche (salvia e rosamrino), i profumi di frutta rossa matura (ribes nero su tutti), la suadente balsamicità (menta e per quelli piu invecchiati canfora).

Viene facile rappresentare questo percorso degustativo come un salto tra generazioni successive, unite da un forte legame che consente al ricco patrimonio genetico di perpetuarsi negli anni senza considerare il trascorrere naturale del tempo.

Il ricordo va a quelle foto di famiglia che si era usi fare una volta, dove in un solo scatto era possibile mettere insieme tre o quattro generazioni affiancate, unire per sempre cento e passa anni di vita vissuta!

In questi vini, come in quegli scatti, è possibile rivivere l’evolversi della vita dei protagonisti andando dalla solidità della maturità, fino alla esuberanza della gioventù senza soluzione di continuità.

 

Annate 1993 e 1995

Per proseguire sulla analogia evolutiva che pone l’Uomo e il Vino sullo stesso piano, possiamo dire di essere al cospetto di due nonni.

Entrambe le annate hanno raggiunto la piena e serena maturità.

Sebbene abbiano avuto una vita faticosa e di grandi sacrifici sono arrivati ai nostri giorni, agili e combattivi.

La 1993 (prima annata con la nuova menzione IGT in etichetta) ha un bellissimo colore granato con riflessi aranciati.

Il naso è maturo ma non è stanco, anzi è subito generosamente balsamico, quasi etereo, ricco di quella mineralità scura che sa di territorio; sono ancora ben presenti i profumi di piccoli frutti rossi e i sentori di cioccolato, la polvere di caffè, lo smalto fresco, qualche sbuffo ematico e ferroso.

Ma è il sorso che ci rivela la sua storia. In bocca l’acidità è subito sferzante, ancora molto vitale.

Il tempo ha addomesticato la forza dei tannini ma questi sono ancora ben presenti sebbene in una forma elegante e rigorosa. Il finale è davvero lungo e sa di radice di liquirizia.

La 1995 invece è esattamente il suo complemento, l’altra metà della mela, la compagna di una vita.

Anche qui un granato pieno ma più delicato, il naso si fa subito colpire dalla mineralità profonda per lasciare poi spazio ai sentori di selvatico, di frutta rossa quasi sotto spirito, speziatura scura, olive nere.

La bocca percepisce l’affinità con la ’93 ma qui sono i tannini ad essere i principali protagonisti, sono setosi eleganti, il sorso mostra un altro carattere del precedente ma figlio dello stesso territorio; occorre attendere qualche attimo per gustare la freschezza ancora integra e la sapidità che sa di marino. Nel finale ritornano il cacao amaro e l’oliva nera.

 Annata 2000

Ecco il primo salto. Ci spostiamo verso destra nella foto, in avanti nel tempo restando fermi nello spazio. Rispetto ai due calici precedenti, colpisce la incredibile vivacità e la vigoria “muscolare”.

L’immagine ricade sul figlio primogenito (lo zio dell’ultimo calice) che va in giro con la spider e vive una vita al massimo. Hai già i capelli bianchi ma li nasconde con una certo vezzo.

Il naso di questa 2000 è imbattibile, balsamico, frutta rossa matura in confettura, mineralità scura di grafite, frutta secca, agrumi canditi, tabacco; è profondo. In pratica un naso che non finisce mai.

In bocca si percepisce un po’ meno opulenza rispetto all’impatto olfattivo, ha già espresso molte delle sue energie giovanili ma vuole prepararsi ad una nuova fase della sua vita. Affronterà la completa terziarizzazione, con forza e stile.

Annate 2005 e 2007

Secondo salto, ci spostiamo al centro della pellicola. I figli delle prime annate entrano nell’ingrandimento.

Sono genitori a loro volta ma sono molto presi dal lavoro, distratti dalla carriera, oberati dalle tante responsabilità.

Il naso ce li mostra ancora chiusi, non del tutto pronti a ciò che saranno nella loro prossima maturità.

Coscienti di avere davanti un percorso verso l’eccellenza ma poco inclini a concentrarsi completamente su come esprimere certe potenzialità.

La 2005 è di colore rubino quasi inchiostro.

Il naso è timido anche dopo averlo fatto respirare nel calice. Forzando un po’ la mano con qualche rotazione in più si riesce a percepire il selvatico e la boscaglia, un’anima ferrosa, di china, che poi lascia spazio ad una più contenuta balsamicità, alle erbe aromatiche e al profumo della passata di pomodoro.

In bocca, il sorso è corposo i tannini vigorosi ma eleganti e mai ruvidi, l’acidità è verticale e ben bilanciata dalle morbidezze. Il tutto si completa con un finale davvero lungo e consistente.

La 2007 (che da queste parti è stata definita come un’annata “eccezionale”) si mostra con un rubino compatto ed un orlo granato.

Al naso si propone come un vino cupo, chiuso in un sottobosco che sa di terra bagnata, di fogliame umido e di piccoli frutti di bosco maturi, olive nere mature, sentori balsamici di china e speziati di liquirizia.

In bocca, su tutti prevale una freschezza quasi citrica, i tannini sono levigati ed armonici, la sapidità è notevole e contribuisce ad un finale intenso e appagante. 

Annata 2012

Ultimo salto, di quelli che si fanno con una gamba sola; che quando atterri quasi perdi l’equilibrio e fatichi a restare in piedi (avete presente i ginnasti dopo l’ultimo volteggio): Il figlio, il nipote tanto atteso.

E’ ancora un’adolescente, di quelli un po’ scapestrati ma dall’animo buono.

Il DNA della 2012 non mente e le sue origini sono ben visibili ma vuole mostrare il suo carattere e costruirsi il suo percorso.

Il colore è quello di famiglia, un bel rubino intenso con qualche riflesso porpora.

Al naso arrivano ancora le note floreali di violetta e di rosa canina, subito dopo i sentori di frutta rossa matura, ribes, lamponi e more su tutti.

In bocca colpisce la sua calorica esuberanza, la notevole freschezza deve farsi strada tra i tannini ancora un po’ scordinati. Una sottile nota lattica completa il finale sapido. Non è ancora perfettamente equilibrato ma il “ragazzo” si farà!

Se avessi potuto fare un abbinamento?

Avrei preso un altro calice della 1993 o della 2000, messo su “Father to Son”e mi sarei seduto sulla mia poltrona preferita.

Andrea Donà
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