Perché non bisogna avere paura del Prosecco Rosé5 min read

Molti amici mi dicono che sono un vecchio snob e spesso, specie nei riguardi del vino, devo dargli ragione. Ogni tanto però il mio snobismo enoico è agganciato ad un campanellino d’allarme e, quando suona, mi blocco come un cane che punta il fagiano e rifletto ( o cerco di farlo) .

Il campanellino è suonato quando mi è arrivata la notizia sul Prosecco Rosé DOC  e infatti il mio articolo era stranamente pacato, sia  rispetto a miei interventi precedenti dove il “Sistema Prosecco”  non ne usciva certo bene,  sia  rispetto a tante prese di posizione di cari colleghi. Sono da due giorni che continuo a domandarmi il perché e alla fine ci sono arrivato leggendo l’articolo 1 del disciplinare del Prosecco DOC (non DOCG, attenzione!) che recita :

Le uve destinate alla produzione del vino a denominazione di origine controllata «Prosecco» devono essere prodotte nella zona che comprende le Province di: Belluno, Gorizia, Padova, Pordenone, Treviso, Trieste, Udine, Venezia e Vicenza.”

Chi ha letto un disciplinare sa che di solito la delimitazione territoriale prende pagine e pagine, proprio perché ritaglia, o cerca di farlo, zone con terreni più adatti da quelle meno in sintonia con la produzione di un vino di alta o altissima qualità.

Il Prosecco DOC invece si produce a “tabula rasa” anche se nell’articolo 2 del disciplinare si pongono dei limiti che sembrano più un autogol per il concetto di qualità insito in ogni denominazione  “Sono pertanto da considerarsi idonei i terreni ben esposti ad esclusione di quelli ad alta dotazione idrica con risalita della falda e quelli torbosi.” La domanda è infatti chi potrebbe pensare di andare ad impiantare vigna in terreni con falda acquifera affiorante o torbosi.

Da queste prime righe si potrebbe capire che considero il Prosecco DOC come un vino di non alta qualità. In realtà vado addirittura oltre: per me (aspettate a gridare) il Prosecco DOC non è nemmeno un “vino”  ma un “bene rifugio”, cioè un qualcosa di diverso dall’idea (enofighetta) del vino, in cui ci si rifugia quando non si sa cosa scegliere, quando non si vuole approfondire, quando si vuole semplicemente bere un qualcosa di facile ma (si spera e si crede) piacevole e a basso costo.

Questi non sono difetti, sono caratteristiche e molto positive se si guarda il mercato!

Non solo nel mondo vi sono centinaia di milioni di individui che ad un “qualcosa di alcolico” chiedono questo, ma basta andare, per esempio, in Inghilterra a bere un bicchiere con critici enoici di vaglia per vederli ordinare, senza la minima vergogna, una bottiglia di Prosecco che noi enofighetti italici nemmeno toccheremmo con un dito.

Per questo perché devo scandalizzarmi se, specie nella situazione economica attuale,  si prova a fare un Prosecco rosé DOC? Si sta parlando di un mercato che non andrà mai ad interferire con quello di qualità anzi, mi correggo, non dovrebbe andare ad interferire. Uso il condizionale perché quando i due mondi si incontrano spesso la colpa non è del Prosecco DOC ma dell’altro vino spumante che, volente o nolente non ha le caratteristiche per differenziarsi in maniera chiara (cioè organolettica, pubblicitaria, qualitativa, territoriale, ampelografica etc.) da un Prosecco DOC.

Quindi, cari italiani e cari produttori, invece di alzare i toni su una tipologia che sta semplicemente facendo il suo lavoro (poi possiamo criticare come lo fa, cercare di evitare storture, sfruttamenti indiscriminati del terreno, derive sanitarie poco chiare) vediamo di far capire al mondo che esistono delle bollicine italiane (rosé o meno) di altissima qualità, molto spesso proposte a prezzi concorrenziali, che sono profondamente diverse e molto più buone di quelle marchiate Prosecco DOC.

Non critichiamo per affossare un marchio che ci invidiano ovunque  ma affianchiamolo, sapendo che in volata bisognerà avere tante gambe e tanto scatto per batterlo, cioè  programmazione,  grande qualità, riconoscibilità,  coraggio, costanza qualitativa. Non si dovrebbe (e non credo si voglia) togliere quote di mercato al Prosecco DOC, anche rosé, ma si deve sfruttare l’enorme indotto che questo nome ha per far capire la superiore qualità dei grandi metodo classico italiano( e magari del vino italiano in generale).

Faccio un esempio terra terra. A un grande pizzaiolo napoletano cosa interessa se la catena di pizze espresse più grande del mondo lancia la “pizza bianca?” Si tratta di due clientele, due progetti, due idee diverse di vedere la pizza, ma il bello è che chi mangerà quella “pizza bianca”  o un altro tipo fatto da quella catena sarà irrimediabilmente  attirato dall’idea di andare a Napoli a provare la sua pizza. Si tratta soltanto di mantenere alta la qualità del prodotto e quando l’abitante dell’Arkansas o dell’Iowa (sono esempi, nessuno  di quelle terre si senta offeso) andrà a Napoli e mangerà la sua pizza non sarà per lui una pizza ma “LA” pizza della sua vita, che ricorderà e pubblicizzerà tra gli amici in eterno, che a loro volta faranno carte false per andare a Napoli etc.

Se si parte dal principio che i metodo classico italiano sono come la pizza del pizzaiolo napoletano dove sono i problemi per il Prosecco Rosé? Servirà solo a far venir voglia al mondo di provare il tuo vino e quindi se il tuo vino veramente vale, porterà in alto le tue vendite e il tuo nome. Se invece siamo quelli che vogliono creare una catena di pizze espresso “forse” migliori di quelle prodotte dalla catena più grande del mondo allora mi sembra logico criticare e avere paura di questa manovra.

A questo punto sorgono due domande, senza false remore:

  1. I produttori italiani di bollicine di alta qualità sono bravissimi pizzaioli napoletani o organizzatori di catene di pizze espresso?
  2. I critici enoici, i blogger, gli enofighetti un tanto al litro sanno riconoscer la differenza tra una pizza surgelata (spesso degnissima e pure meglio di tante pizze in tanti locali italiani) e quella di un grande pizzaiolo napoletano?
Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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