Patriglione: conversione sulla via di Damasco3 min read

Finalmente siamo riusciti a far prendere la penna in mano ad uno degli storici scansafatiche del gruppo di Winesurf, quel Paolo Costantini che avrebbe i numeri per deliziarci, almeno settimanalmente, con bellissimi articoli. Sta a voi, commentando, convincerlo ad insistere.

 

 

Lo confesso, con una punta di rimorso: non sono mai stato un fanatico ammiratore del Patriglione. Opulenza, maturità, evoluzione spinta già dal suo nascere non mi hanno mai conquistato.

Sia ben chiaro, da Pugliese, l’ho sempre amato e rispettato come vino simbolo di un riscatto della mia terra, di uno sdoganamento dalla mediocrità di una produzione enologica relegata alla cisterna o nel migliore dei casi alla damigiana, gonfiando il petto di orgoglio agli osanna della critica e alle secchiate di premi raccolte negli anni, quando ancora sulle guide la Puglia riempiva a stento un paio di scarne paginette, più per amor di completezza che per convinzione del valore dei suoi vini.
Il sospetto che quei successi fossero frutto soprattutto del carisma degli interpreti di quel vino mi ha sfiorato per anni ed ancora oggi continuo a pensare che la straripante umanità di Cosimo Taurino e la personalità arguta e ironica di Severino Garofano non abbiano svolto un ruolo secondario nell’attestazione del fenomeno Patriglione, anche se ho sicuramente rivisto le proporzioni dei meriti di quel successo.

Ma veniamo alla ragione della folgorazione convertitrice, alla cronaca  di una degustazione di grande emozione a cui ho avuto la fortuna di partecipare in occasione dell’ultimo Vinitaly (inconsapevole via di Damasco), per le ragioni dell’Onav Puglia affiancando due vecchi marpioni del serraglio enologico pugliese: Pasquale Porcelli ed Enzo Scivetti che i lettori di questo sito ben conoscono.

Tema della degustazione: Percorsi evolutivi del Negroamaro. Sottotema: degustazione verticale comparativa di Negroamaro di tre areali diverse per tre annate. A confronto, oltre al già citato Patriglione nelle annate 2003, 2001 e 1999, il Teresa Manara di Cantele nelle annate 2008, 2005 e 2004 e il Divoto di Apollonio nelle annate 2001, 1997 e 1993, mica cotiche.
Non sfigura il Teresa Manara, l’unico Negroamaro 100% di cui disponevamo:  impeccabile nell’esecuzione, grande tecnica e piacevolezza, che non corrisponde al “tutto chiacchiere e distintivo” di Al Caponiana memoria. Magari un filino di cuore in più non avrebbe guastato, ma non si può avere tutto. Un’interpretazione del territorio moderna che nelle annate in successione rispecchia l’evoluzione nella gestione del legno dell’azienda in un percorso lineare che porta la più recente annata nel bicchiere ad un’espressione del frutto completa e succosa.

Una vera sorpresa, almeno per me, il Divoto di Apollonio, una Doc Copertino di cui abbiamo goduto annate apparentemente improponibili per un vino pugliese. Emozionante già nel colore lo splendido 1993, un rosso mattonato che definire didattico è riduttivo; dall’alto della sua maggiore età si mostra  ancora saettante di freschezza, dai toni evoluti, e ci mancherebbe, ma finissimi, di fiori,  terra e sottobosco, un corpo ancora nervoso e scattante, ben lontano dall’aver raggiunto la pace dei sensi. Più vicino a Carema che a Manduria per intenderci nello stile, ma in realtà tanto Negroamaro, anzi Nierumaru per essere più precisi.

E concludiamo, con il capo cosparso di cenere e battendoci il petto, il nostro resoconto con l’ormai pluricitato Patriglione: evidente il passaggio di mano nell’annata più recente, il 2003,  ancora imberbe, giovane e opulento. Sono comunque le due vendemmie successive, l’ultima in particolare, a rivelare il vino nella sua vera essenza, l’essere bevuto il più tardi possibile, quando il vino perde gli eccessi dell’alcol e della sovramaturazione, sfumando la sua opulenza, impreziosendosi di note di estrema eleganza, sostenuto da una freschezza ancora vivacissima, un trionfo di profumi terziari, con sottili note empireumatiche, e un sottofondo di terra e liquirizia che rimandano a Brunelli d’antan.

Paolo Costantini

Per dimenticare la grama vita del bancario ho cominciato a dedicarmi al vino quando ancora non faceva figo, attraversando longitudinalmente buona parte del mondo associativo ad esso vocato. Fatale mi è stata la lunga esperienza in Slow food a causa delle cattive amicizie acquisite (Macchi e la banda di winesurf). Trascorro il raro tempo sottratto al lavoro e alla famiglia formando assaggiatori-mostri che metteranno a dura prova la pazienza di sommelier e produttori per futili motivi, nonché collaborando con riviste di settore online dalla dubbia reputazione. 


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