Parole8 min read

Noi scriviamo ogni giorno parole, in particolare per parlare di vino. Questo piccolissimo saggio di un grande esperto (anche) di  gastronomia, Beppe Lo Russo, cerca di renderci doverosamente complesso quello che crediamo semplice, per farci riuscire a intravedere  il sempiterno abisso che sottende al bene forse più grande dell’uomo: la parola, scritta. Cosa c’entra il vino? Ma è semplice: che vino sorseggereste durante la lettura?

E come possiamo intenderci se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose che sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente, le assume col senso e il valore che hanno per sé del mondo che egli ha dentro? (Luigi Pirandello, Così è se vi pare)

Ora ti dico come penso stiano le cose e le parole fra scrivente e lettore.

Un esempio, e poi più in là un altro. Io scrivo e tu leggi: cazzo. Ma così come appare qui nel richiamo a Rabelais, non è la stessa parola che leggeva nel Gargantua e Pantagruel un suo contemporaneo, né è la stessa che leggiamo noi oggi nella sua opera. Non è lo stesso cazzo di Henry Miller o dell’Aretino o di Bukowski. Per dire: quel “cazzo”, dopo essere giaciuto con tanti e in epoche diverse, è una parola che intrattenendosi ora con me e con te in questo messaggio, è ancora diversa da quella che è ed è stata; di più e di meno, a seconda di come la continuo a usare e tu a leggere (con quali occhi della mente o del cuore, non so), e dunque a seconda del genere di pregiudizi o di attese che noi due, separatamente, ci siamo andati formando su di lei in seguito alla sua frequentazione: dove l’abbiamo incontrata, come andò la prima volta, in che luoghi, in compagnia di quali altre parole, persone ecc.

Questo per dire: le parole sono cortigiane di lungo corso e di grande esperienza di cui è bene non fidarsi mai fino in fondo o diffidare del tutto. Sono, a mio parere, dei meravigliosi esempi di ermafroditismo applicato alla prostituzione, dotate ognuna di lunghissima memoria e con infinite storie da raccontare. Questo perché hanno vissuto e vivono – loro sì – innumerevoli vite, e sanno di greco e di latino, e più indietro ancora hanno radici a cui spesso non è possibile risalire. Che non si conoscono. Dicono diverse cose insieme e anche contrastanti; dicono falsità che sembrano vere o non dichiarano tutto quello che sanno; spesso alludono ad altro e ti lasciano stranito a giustificarti agli occhi del mondo per un’imperdonabile ingenuità.

Insomma mentono, ma con uno scopo preciso: devono sedurre, per adescare non importa chi, se professori, negozianti, geometri, contadini, amanti, ragazzi, suore… In questo non nutrono alcun pregiudizio, né di razza, classe, colore, professione, fede religiosa o politica. Per una naturale attitudine, tipica del mestiere, sanno compiacere tutti: poveri e ricchi, bianchi e neri, sani e malati, sconosciuti ed illustri.

Dunque, le studiano tutte per rendersi desiderabili e fanno di tutto per piacere: mostrano atteggiamenti accomodanti – con loro puoi prenderti qualunque libertà – promettono di fare tutto ciò che chiedi loro, ma poi, nell’assecondarti, non è mai sicuro che si lascino coinvolgere.

Sono professionali, ecco tutto, e non ti fanno mai mancare l’illusione di lasciarsi fare. Così, quando credi di usarle, ti usano, sembrano disponibili a matrimoni d’amore, e invece è soltanto un segno della loro alta specializzazione.

Non si finirebbe mai di apprendere nuove storie e pettegolezzi sul loro conto. E in verità non basterebbe l’intera Enciclopedia Britannica a scrivere tutte le storie che si raccontano su una sola di loro.

Come tutte le grandi meretrici le parole sono abilissime nel ricoprire infiniti ruoli, e spesso più ruoli contemporaneamente. Con chi lo chiede, di volta in volta si fingono madri amorose e protettive, mogli sottomesse o scontente, amanti insaziabili o capricciose, masochiste e sadiche, bambine ingenue o perverse. Frequentarle, per quel poco che sai di loro, è sempre una nuova sfida.

Per poterci trattare devi far finta di credere a tutte le loro moine, pensare che con te è diverso, loro fanno sul serio, sei tu il loro unico amante, ti hanno adottato come il figliol prodigo, scelto come marito fedele, compagno soccorrevole o da soccorrere, fratello prediletto ecc. E invece, anche quando credi di esserne diventato intimo, ti tradiscono. Che andassero con tutti, lo sapevi, ma che soddisfacendo i diversi capricci di ognuno, ti contaminassero con strani vezzi, tic, affezioni morbose o malattie lunghe da mandar via, è cosa che scopri solo frequentandole giorno per giorno. Ed una vita intera non basta.

Non si arriva a credere di cosa siano capaci le parole. Talvolta ti si danno già gravide di qualche incestuoso rapporto, chiedendoti magari di condividere il frutto di un peccato che non hai commesso. E alla fine, non se ne esce senza qualche cambiamento nel carattere, nel modo di pensare se stessi, la vita, il mondo ed il prossimo. In qualche modo ti infettano, entrano in te come il fagiolo che vegeta nella narice di un bambino o come il mostro spaziale che si riproduce nel corpo degli astronauti di “Alien”. E se non ci fossero dei naturali anticorpi o studiati ripari, le parole si svilupperebbero in te come famiglie di virus, colonie di batteri, con effetti devastanti. Parleresti le parole dei conduttori televisivi, e gli attimini e i voglio dire e i cioè, i piuttosto che e quant’altro e non c’è problema.

Nel fecondarti ti trasmettono tutto quello che hanno contratto o contraggono nel loro bazzicare con l’intero universo degli alfabetizzati, ma anche ciò che prenderanno da amanti – di strada o di salotto, non importa – che ancora le attendono desideranti, e con i quali già intuisci sono destinate ad unirsi.

Infedeli e lunatiche come sono, non si può mai essere certi di prevedere le loro mosse: ti mettono nei casini, suscitano scandali ed un numero incredibile di equivoci. Ti usano come sicario in qualche delitto a cui sei assolutamente estraneo; ti sequestrano fisicamente; ti ricattano moralmente fino a spingerti a fare le cose più turpi; ti rendono complice di intrighi che neanche quelli internazionali di Hitchcock!

A tutto questo c’è però una giustificazione, e un però.

Come fra due amanti separati, fra le parole e noi esiste una corrente di desiderio reciproco; per questo mentre pensiamo di sedurle ci seducono e le desideriamo quando ci mancano e le respingiamo quando si fanno troppo vicine e insistenti. Le parole hanno bisogno di noi e noi di loro; a noi ricorrono per esistere, e noi a loro per l’identica ragione, anche.

Dunque, stando più o meno così le cose, quello che decide per una “bella scrittura” è l’impreciso e faticoso accordo che si stabilisce fra lo scrivente e il suo lettore. Un accordo fondato su un sentire identico, sulla condivisione di un’allucinazione cognitiva, derivata a sua volta dalla imprecisa conoscenza reciproca sulla natura del rapporto che l’uno e l’altro intrattengono con le parole; ma non solo, anche sulla presunzione che entrambi hanno sulla natura di quel rapporto e sulla previsione di quello che potrebbe seguire dallo scambievole dono dal sentido (sp.) dell’uno a quello dell’altro. Tutto questo – perché qualcuno leggendo dica dello scrivente: come scrive bene! – deve diventare intendimento comune; che è poi la stessa fiducia che ambedue, per un meraviglioso accidente, si troveranno a dare alle parole che scrivono e che leggono.

Allora, per dire: puoi trovare laboriose queste parole, come me che le scrivo in qualche modo costretto a farlo per comunicarti delle non facili riflessioni, o ugualmente puoi amarle se con me acconsenti a credere che anch’esse ci amino, che vogliono dire questo appunto: che mi amano, che ti amano.

Ed eccoci al secondo esempio. Se ora le parole con più forza riprendessero a dire: “quando mi sei venuta accanto alta diritta, amorosa nella tua persona, come ti hanno visto i miei occhi…”, se tu non ci credessi, tutte insieme potrebbero suscitarti, in ordine crescente: un leggero disbelieve; una franca risata; un’altra, forse sguaiata; un forte dispetto; una feroce rabbia interrogativa. Diversamente, se stabilissi con queste, per un grato errore della mente e dell’animo, un felice accordo – o una complicità colpevole quanto la mia – se riuscisse, dico, questo reciproco inganno, esse potrebbero regalarti, nell’ordine: una ritrosia pudica; una vaga lusinga; una curiosità sentimentale; un segreto languore.

Paradossalmente, nonostante siano assai navigate, le parole dell’esempio mostrano d’essere pudiche – e lo sono, pudiche -, perché di più direbbero se fossero certe che l’altro autore, chi ora le sta leggendo, fosse ben disposto a crederle e non sospettasse, come sarebbe legittimo, che invece fingono.

Intanto però, loro – sempre loro, intendo – se ne stanno a cuccia, fanno lo gnorri, pronte a disdire quello che pure sembra abbiano detto. Non faranno una piega, lo so, non si sveleranno prima d’essere certe che chi le sta leggendo in cuor suo pensi di desiderarle almeno quanto chi le sta scrivendo.

Esse desiderano, per questo temono di scoprirsi del tutto, e vogliono essere desiderate per poter essere credute, e vogliono essere credute perché alla fine possano amarci entrambi.

Beppe Lo Russo
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