Nel calcio siamo fuori dal mondiale, e nel vino?8 min read

Machiavelli diceva che la follia è uno strumento importante, anche per uscire dalle crisi. La fortuna, l’imponderabile, il misterico,  un altro pilastro che regola la vita dell’uomo secondo il cancelliere fiorentino, sembrava fatto fuori dalla nostra società autoreferenziale:  il Covid e la pazzia della guerra, a quanto pare, l’hanno riportata in ballo.

Vediamo prima quella che in questa sede è una metafora, il calcio. Il calcio italiano è in crisi, le società più importanti sono proprietà di holding finanziarie, i giocatori stranieri sono il 62% del totale in serie A. Sono i  flussi finanziari che animano la partita, non sul campo di calcio, ma nei negozi  delle borse e nei tavoli di contrattazione dei diritti televisivi. Non c’è più collocazione geografica, tradizione, passione; se l’investimento non rende cambiare bandiera è un attimo.

Compensi mostruosi ai giocatori e le scuole calcio giovanili  sono in abbandono, è più conveniente e facile pescare altrove dove il talento viene su puro nelle strade, dove  c’è ancora voglia e fame di arrivare.

Non sono nostalgico di quello stato di cose dove la fame e la miseria spingono a cercare di arrivare ad ogni costo. Neanche quella è vera passione, è più che altro uno stadio economico-sociale in  ritardo, che vive nell’illusione di raggiungere il nostro più alto livello di vita, che spesso non mantiene le agognate promesse. Tanti giocatori sudamericani, africani, dell’est europeo lo hanno sperimentato. Pensare di cambiare questo mondo del calcio è pura pazzia, come è una pazzia continuare ad accettarne la dittatura.

Intanto, nel dubbio, l’Italia, paese di grande tradizione, è fuori dai giochi per questo giro. La FIGC si rende conto sicuramente di questa situazione, ma a quanto pare non riesce ad influire per cambiare le cose. Eppure basterebbe un po’ di sana follia, creare e investire le forze in un mondo parallelo, in  una serie di  campionati alternativi che non sono in apparenza in conflitto con lo status quo; le squadre composte solo di giocatori residenti da più anni nell’area geografica di cui rappresentano i colori, questa dovrebbe essere la costante in tutti i campionati. Giocatori residenti nel singolo comune per le serie minori,  residenti nel comune e nei comuni limitrofi per quelle intermedie,  residenti nella provincia o nella regione per le serie maggiori che giocano i campionati nazionali, questi ultimi magari potrebbero essere giocatori professionisti che però, per forza di cose, hanno compensi terrestri e non lunari.

Un calcio che appartiene alle comunità locali, che non interessa ai grandi capitali, fatto di passione sportiva che potrebbe riservare qualche sogno e orgoglio al comune o alla provincia più sfigata, un po’ come avviene ogni tanto nella coppa di Francia; ricordate il Calais, la squadra di dilettanti che andò in finale? 

Per competere si  costituirebbero le scuole calcio e vedremmo una fucina di talenti magari buoni anche per la nazionale. Ecco d’incanto abbassati gli investimenti e riportati a livello sportivo quello vero, riacquistata un’identità sportiva, che si misura e si incontra con altre egualmente motivate. Così si creerebbe una vera unione tra diverse comunità, una rude ma sana unione all’interno delle regole del calcio e dell’umanità.

Si potrebbe istituire il  terzo tempo, perché no, anche con scambi culturali,  che attirerebbe di nuovo a se anche i tifosi transfughi del calcio e un po’ chic, del rugby. Un sogno, ma fattibile nel tempo, un po’ come l’energia green in alternativa al petrolio, al carbone e al gas, sarà dura ma bisogna crederci.

 E nel vino?  Il racconto del calcio e della sua crisi di uno poco esperto come me, con soli 5 anni di dirigenza di una squadra delle ultime categorie, spinto dalla passione dei figli, può comunque essere una buona metafora per il mondo del vino, che personalmente conosco di più e vado subito al sodo avendone già scritto in precedenza.

Il mondo del vino  è succube degli stessi processi di investimento finanziario che privano qui le comunità rurali della loro terra e creano una frattura fra il mondo viticolo e del vino e gli abitanti della comunità. I giovani per effetto dei forti investimenti, non possono acquistare la terra che ha prezzi inarrivabili, ed è un problema con questi valori, anche riceverla in eredità. 

Preferiscono poi non lavorare per queste aziende aliene:  una cosa è infatti lavorare in una zona industriale, ma se ti comprano la terra è come se ti siano entrati in casa.  A causa del disagio, la perdita di appartenenza, i giovani  non vedono  in questo campo una strada possibile per la loro vita, preferiscono andare via.  Le zone rurali si spopolano e si portano le squadre di poveri operai dall’est europeo per lavorare i vigneti, i villaggi diventano dei dormitori aziendali, luoghi senza vita.

Il vino di qualità è un’espressione della comunità locale nell’interazione con la vigna  la  terra,  se manca la comunità piano, piano, anche il vino viene a perdere le sue peculiarità, per quanto si fregi di titoli giornalistici  o di rispetto ambientale. Tante zone di alta tradizione, vivono del fascino residuo delle comunità che li hanno resi grandi nel passato, oggi quelle aree rurali, come detto, sono disabitate nonostante i grandi fatturati e anche il loro vino subirà un inesorabile declino. L’impianto normativo delle  Doc non aiuta: ha come scopo l’ipotetica qualità del prodotto,  creare una filiera garantita a tutela del consumatore.  E’ rivolto in primis al mercato e di fatto le Doc attirano i capitali perchè rendono sicuri gli investimenti e lo sviluppo di forti brand aziendali, ma non per forza tutelano un territorio e la sua comunità, anzi!  Spesso alla comunità rimane solo il fastidio del passaggio dei trattori, dei continui trattamenti pur se biologici. Un’industria inquinante, odiata come tante altre, altro che espressione del terroir.

Produttori di Mamoiada

Gli osservatori intanto, plaudano ai successi del vino italiano. Gli indicatori considerati sono i fatturati, l’interesse degli investitori, le acquisizioni importanti, naturalmente frutto di capitali esteri che conferiscono qui nell’italietta un blasone, una corona aurea, ma purtroppo messa in testa ad un malato grave. Credo ci sia una grande cecità in questo e se siamo ancora in corsa nel campionato mondiale del vino e perché anche gli altri soffrono degli stessi problemi, come la stessa Francia, pur se favorisce le acquisizioni fatte in casa.

Potremmo però provare una volta a essere il faro che indica la via . 

Anche per il vino servono progetti e normative rivoluzionarie frutto di sana follia, follia che con altre parole si può definire il coraggio di avere buon senso.

Certo, come per il calcio, è da pazzi pensare che di punto in bianco si possa dare una svolta così marcata, ma anche qui  si possono istituire  norme alternative che,  invece che fissare dati analitici e procedure produttive e di trasformazione per il vino di qualità , mettono al primo punto la condizione che sia una comunità locale residente in un territorio ben definito, con tutto il suo bagaglio di vocazione, tradizione, cultura, religiosità, a essere espressione e garante delle produzioni. 

Queste comunità possono rispondere ad un impianto normativo generale che ne fissi gli archetipi fondamentali e ad auto-regolamentazioni che rispondono invece a caratteristiche particolari della comunità stessa, del territorio e del vino.

Mettere come metodica al primo posto le persone e non il prodotto, è un totale cambio di prospettiva. Una comunità responsabile,  nell’amore alla propria terra, al proprio lavoro e al vino, in quanto fanno parte della sua stessa vita,  pur con gli umani limiti,  è la massima garanzia ottenibile per gli standard oggi richiesti, sia per il vino, che per l’ambiente.

In attesa delle normative, i territori procedono in questa direzione e dopo Mamoiada,  ecco l’associazione dei viticoltori di Montespertoli evviva!! Speriamo che tanti altri si aggiungano.

Possiamo insieme fare tanto, in  primis ognuno operando  bene nel suo territorio, non c’è più tempo per operazioni di greenwashing a fine di mercato, il verde di facciata ha fatto il suo tempo. Viviamo il tempo del “non ritorno”(forse mai ne abbiamo vissuto un altro, ma oggi è più evidente) e ci conviene pensare a vivere felici.  Diciamo la verità, se dietro la bottiglia non vi è il  volto di un vignaiolo terragno,  ma un amministratore delegato,  il vino perde tanto del suo fascino, non per una questione di immagine, ma di estetica;  le cose veramente belle sono anche buone e giuste.

Francesco Sedilesu

Francesco Sedilesu è sardo, di Mamoiada. Produttore di vino ma anche penna profonda e grande conoscitore della sua isola.


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