Morgon: il “Beaujolais” che non ti aspetti11 min read

Ospitiamo con piacere questo approfondito articolo di Andrea Donà che, come dice lui, nella fase “4.0” della vita ha deciso di mettere il vino in pole position.

Il Beaujolais è sicuramente una delle regioni vitivinicole più note di Francia (nel bene e nel male pur che se ne parli), come del resto lo è anche il vitigno che di essa è il vessillo enoico più famoso: il Gamay.

Forse un po’ meno nota è invece la storia e la tradizione enologica dell’Aoc Morgon che, con il suo 7% di estensione (1100 ettari sui 16.000 totali) rappresenta la seconda denominazione nella regione del Beaujolais dopo il Brouilly e con 6,2 milioni di bottiglie vale più o meno il 10% della produzione totale.

Ciò che la distingue dalla Aoc materna, aldilà dei numeri, va ricercato a mio avviso nell’accuratezza, nella struttura e nella longevità dei vini che escono da queste cantine.

Ma procediamo per gradi.

 

Entriamo in Morgon

Morgon dunque, ovvero il Beaujolais settentrionale, nello specifico il comune di Villié-Morgon, 54 chilometri a nord della città di Lione.

I suoi “vicini di casa” sono le Aoc di Fleurie, e Chiroubles, oltre a Moulin-à-Vent, Juliénas, Chénas e Saint-Amour a nord; Regnié, Brouilly e Côte-de-Brouilly andando verso il sud della Aoc principale.

Qui i vigneti beneficiano dell’esposizione ad est del versante del monte Py e sono soggetti all’incontro del clima oceanico proveniente da ovest, del clima mediterraneo in estate e di quello continentale in inverno.

Il territorio di Morgon si suddivide poi in sei particelle – i cosiddetti lieux-dits – che si distinguono per peculiari caratteristiche topografiche e/o storiche che possono essere riportate in etichetta: Les Charmes, Corcelette, Côte du Py, Douby, Grand Cras, Les Micouds.

Morgon, in effetti, non è proprio “l’ultimo arrivato” avendo ottenuto il titolo di  Aoc nel 1936, contestualmente alla creazione dell’appellation Beaujolais.

Ciò ha rappresentato un’importante attestazione sia a livello statale che internazionale ma anche una conferma per chi conosceva la storia viticola quasi millenaria della zona: sembrano infatti risalire all’anno 956 le prime testimonianze scritte della viticoltura locale.

La prima identità: tradizione e sostenibilità

Seguendo il tipico modello francese nella value chain vinicola, la maggior parte della produzione del Beaujolais è appannaggio delle grandi maisons che vinificano le uve dei conferitori oppure affinano o imbottigliano i vini acquistati presso i viticoltori e si occupano di tutta la fase di commercializzazione (il concetto di négoce).

Tra i più noti négociant (figura quasi del tutto sconosciuta in Italia), troviamo la Maison Louis Jadot e le Vins Georges Dubœuf (quest’ultima acquista da 300 fornitori e vende in 120 paesi, quasi un quarto della produzione regionale) ed è possibile affermare che da tempo, in Francia come all’estero, rappresentano sul mercato, l’immagine stessa del Beaujolais (sia esso “normale” che nouveau).

Questo modello se da un lato ha consentito una notevole diffusione dei vini regionali, dall’altro ha avuto il  demerito di marchiare i vini del Beaujolais come un prodotto altamente standardizzato (quasi figlio di un processo industriale), spersonalizzato, imprigionato in una filosofia realizzativa ridotta all’osso e basata sui pochi aromi (fruttati) e sulla incapacità di resistere nel tempo.

Anziché far evolvere l’intero comparto, il successo commerciale di fine secolo scorso ne ha di fatto abbattuto la qualità media, schiacciandola verso il basso fino a far coincidere l’identità complessiva con quella del suo peggior vino: il noveau.

Per arrivare a comprendere, invece, ciò che Morgon è riuscita a realizzare occorre andare un po’ più in profondità; è necessario analizzare con più cura le dinamiche umane e territoriali che qui si sono consolidate e in parte anche evolute.

Mi riferisco, in primis, alla capacità dei suoi contadini di mantenere quasi inalterata nei secoli la determinazione nel produrre si vini golosi e fragranti ma anche sorprendentemente longevi, soprattutto se vinificati con grande maestria e nelle zone più vocate.

Non a caso viene riconosciuta ai migliori esemplari di questa denominazione, la tendenza a “pinoter”, ovvero ad assumere con l’evoluzione le tonalità gustative che li avvicinano ai nobili Pinot Noir di Borgogna.

Morgon, inoltre, è riuscita nel tempo a non piegarsi completamente alle regole e ai dettami del négoce.

Infatti, ad oggi, i suoi quasi 400 vinificatori detengono il 40% delle vendite dirette e rappresentano un piccolo baluardo della logica vitivinicola artigianale che in qualche modo fa da contrappeso alla grande industria distributiva.

Esiste, poi, un terzo aspetto di sicuro non meno importante dei precedenti anche se forse inizialmente è risultato meno appariscente dal punto di vista della comunicazione.

Mi riferisco all’opera fondamentale di un gruppo di vignaioli locali che, a partire dai primi anni Ottanta, decide di abbandonare la produzione di vini fatti assecondando le logiche dell’epoca che professavano come unico credo l’utilizzo massivo di un’enologia correttiva.

Seguendo le intuizioni e gli insegnamenti dell’enologo, wine-maker e studioso Jules Chauvet (1907-1989), la cosiddetta “Banda dei Quattro” viene via via formandosi sotto la pioneristica bandiera dei vini “naturali”.

A guidare questo “pacifica pattuglia rivoluzionaria” è Marcel Lapierre (scomparso nel 2010 e proprietario dell’omonimo domain) affiancato dai tre amici di sempre: Jean Foillard (“l’artigiano di Morgon”), Guy Breton (“Petit Max”) e Jean-Paul Thévenet (“Paul-Po”).

Marcel Lapierre

Dogmi comuni per tutti: mantenimento delle vecchie vigne, uso sostenibile e ridotto di solfiti, l’utilizzo di lieviti indigeni per la fermentazione, il rifiuto di qualunque alterazione in cantina, la cura manicale in vigna per ottenere uve il più possibile sane, rifiuto della pratica della “chaptalization” (ovvero l’aggiunta di zucchero industriale al mosto al fine di incrementare il titolo alcolometrico a fine fermentazione).

Mantenimento della tradizione, perseveranza in un modello di business, voglia di rompere gli schemi: sono i tre elementi che di fatto hanno contribuito alla costruzione della prima identità della moderna Morgon rappresentandone il “nocciolo duro”, una resistenza silenziosa di contro-tendenza rispetto alle logiche industriali volte ad una produzione spersonalizzante e a certe pratiche di una viticoltura troppo invasiva, ormai (oggi) fuori moda.

La seconda identità: la vinificazione

 Tradizionalmente si pensa che la vinificazione del Beaujolaise, a 360°, si riassuma in una macerazione carbonica, ovvero, la macerazione di grappoli interi non diraspati e non pigiati con l’avvio di una fermentazione intracellulare di tipo enzimatico e non quindi affidata ai lieviti; il tutto effettuato in vasche saturate di anidride carbonica.

Questa pratica in effetti corrisponde, come sappiamo, alla metodologia utilizzata per la produzione de vini “novelli”.

Per il Morgon, in particolare per quello destinato ad essere conservato per qualche anno in bottiglia, la vinificazione è invece semi-carbonica, quindi a metà strada tra la macerazione carbonica propriamente detta e la vinificazione diciamo di tipo “Borgogna”.

Trattasi in effetti di una convivenza dei due tipi di fermentazione con la prevalenza, in questo caso, della macerazione tradizionale senza saturazione con anidride carbonica.

Il punto di partenza rimane quello della raccolta rigorosamente manuale delle uve, la cernita attenta e meticolosa dei grappoli e la loro vinificazione senza diraspatura.

Il procedimento così descritto, “a due fasi”, permette di ottenere il meglio di entrambe le tecniche: un impatto gustativo fruttato e immediato derivante dalla macerazione carbonica e una maggiore struttura e corpo del vino, derivante dalla macerazione e fermentazione tradizionale del mosto.

Il processo completo infine necessita di tempi molto più lunghi di quelli della produzione del vino “noveau”, così come molto più accurato deve essere il controllo delle temperature (mantenute intorno ai 25°C) necessario per non estrarre dai raspi le componenti vegetali più dure e aspre.

Due fasi quindi e due aspetti che realizzano questa seconda identità: tradizione ed innovazione.

La terza identità: Il territorio (e il terreno)

 Dal punto di vista orografico, I vigneti di Morgon si collocano, principalmente, sul pendio orientale dei monti Beaujolais; geologicamente invece ci troviamo in presenza di rilevanti affioramenti granitici ma anche matrici scistose e argilloso-calcaree (molto ricche di manganese).

Villié-Morgon la componente principale è il “granito Fleurie” (un granito composto prevalentemente di monzonite e biotite) di colore rosa, sistematicamente ricoperto di arene (localmente chiamate “roccia marcia”).

Il terreno nella zona vicino alla frazione di Morgon, La “Côte du Py”, a sud di Villié-Morgon , appena sopra la frazione di Haut Morgon, è particolarmente ricco di ciò che i geologi descrivono come “un deposito vulcanico sedimentario”, formato da frammenti sparsi di origine basaltica di colore verde scuro.

Les Charmes, a ovest di Villié-Morgon in direzione di Régnié-Durette, sull’asse che unisce la frazione di Morgon a quella di Saint-Joseph, è una collina che si affaccia a sud-sud-est composta di granito, con venature di scisti di manganese. Qui i vigneti si posano su entrambi i lati della antica strada romana che collegava Lione ad Autun.

Infine risalendo verso est, in una linea formata dal crinale della collina, nella frazione di Morgon, si trovano diffusamente ciottoli (granito e pietra focaia), sabbia e argilla, fino al contatto con la piana alluvionale della Saona il cui corso dista circa una decina di chilometri.

I vigneti si trovano mediamente tra 250 e 500 metri slm, il che consente oltre a delle buone escursioni termiche anche un differente calendario di vendemmia per le diverse quote.

La terza identità si realizza, dunque, con il forte legame al territorio che è possibile ritrovare oggi nelle diverse versioni di Morgon: da quelli più fini, con frutti rossi e neri mescolati del lato ovest, a quelli più robusti e speziati della zona centrale, a quelli freschi e longevi delle quote più alte ed asciutte.

La quarta identità: il vitigno

Gamay

Arriviamo alla quarta ed ultima identità di Morgon (che condivide con tutto il resto del Beaujolais): il Gamay, che i francesi spesso chiamano anche “gamay noir à jus blanc “per identificare la particolarità del suo succo bianco e per distinguerlo dagli altri vitigni a bacca nera.

Nel 1999, un’equipe composta da ricercatori della Università della California, dell’ENSAM (la scuola Superiore Nazionale dell’Agronomia di Montpellier) e dell‘INRA (l’Istituto Nazionale delle Ricerche Agronomiche) ha condotto uno studio sul DNA di questo vitigno, scoprendo che è di fatto un incrocio tra il Pinot Nero e il Gouais Bianco.

Da sempre presente in Francia ed in particolare in Borgogna, venne da qui quasi del tutto spodestato nel tardo Medioevo (ma ne rimarrà traccia almeno fino al XIX secolo), probabilmente per non far sfigurare l’altro vitigno a bacca nera presente sul territorio – il più nobile Pinot Nero – che rispetto al primo perdeva non certo in qualità quanto in vigoria produttiva; da lì in avanti trova accoglienza e massima espressione, scendendo verso sud, nei territori del Beaujolais ma anche sulle rive del Rodano e della Saona.

Questo esodo forzato si rivela in effetti un percorso vincente per il Gamay e per i suoi viticoltori: I terreni poveri e ben drenati riescono a controllare la fertilità del vitigno, diminuendone le rese a favore della qualità.

Il Gamay si riscopre così a suo agio nei suoli acidi e granitici che qui abbondano.

Ad oggi la normativa prevede che possa essere affiancato da alcuni vitigni a bacca bianca: Chardonnay, Aligoté e Melon de Bourgogne (ormai rare ma storicamente presenti nel Beaujolais), a patto però che la loro distribuzione in vigna sia promiscua al Gamay e non ecceda il 15% del totale. Il rendimento massimo è di 56 ettolitri/ettaro (anche se oggi ormai la resa effettiva è di gran lunga inferiore). Ancora tipica la disposizione dei ceppi “en foule”, ovvero in ordine sparso anziché in filari, con potatura ad alberello e alte densità di viti per ettaro (il disciplinare impone almeno 6.000 piante/ha, ma spesso si raggiungono concentrazioni più che doppie). La raccolta manuale è obbligatoria e l’uva deve essere trasportata su rimorchi bassi per preservarne l’integrità.

Il vitigno dunque come quarto elemento che non poteva mancare; una identità che oggi riafferma di aver trovato qui la sua terra di elezione, le condizioni più appropriate perché l’uomo possa esaltarne i suoi punti di forza.

In conclusione…parla il calice!

Il caso Morgon è davvero molto attuale.

L’artigianalità nell’intera filiera di molti produttori, lo sviluppo sostenibile del territorio, il rispetto per le pratiche in vigna più virtuose – e quindi il rispetto anche per il consumatore finale – la ricerca non tanto della unicità (non siamo a Montrachet) ma quanto meno della riconoscibilità di un vitigno e di un territorio, la forte volontà di affrancarsi dal monopolio di fatto del vino mordi e fuggi (il “noveau”) producendo vini che finalmente possono invecchiare (10, 15…20 anni), sono tutti valori che non possono più essere trascurati in una viticoltura che vuole essere moderna e consapevole.

In definitiva il Gamay di Morgon riesce ad esprimere tutta la sua naturale gioiosa golosità ma è anche in grado di rivelare una certa classe, una nobiltà d’animo soprattutto nelle versioni più “agée”: note speziate e orientali, un frutto croccante ed integro, una corposità mai muscolare ma delicata e tonica, un tannino mai superbo e un’acidità che sa farsi sentire, il tutto bel legato da una saporosità…granitica

E poiché alla fine è sempre il calice che parla, oggi potremmo brindare aprendo un La Pierre, uno Chamonard, un Jean Foillard o un JP Brun – solo per citare i più noti ed affermati sul mercato – nelle loro diverse interpretazioni e filosofie produttive ed essere sicuri di  aver colpito nel segno.

Andrea Donà
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