La stampa estera a portata di clic: Decanter, numero 44, 20197 min read

E’ un numero speciale interamente focalizzato sulla Spagna, con i panel tasting  dedicati  ai  Rioja 2010 e ai  vini  a base di mencia, l’“Expert Choice” dei vini rosati spagnoli Premium, servizi  sulla scoperta dei produttori emergentida tenere sott’occhio.

Poi i migliori Tempranillo, i vini di Terra Alta, e i bianchi di Rueda, la rivoluzione enologica di Jerez, itinerari enoturistici  nella Rioja e a Sevilla, l’intervista a Raúl Pérez, winemaker  molto popolare (e barbuto) di Bierzo, e il profilo di Remírez de Ganuza, azienda “groundbraking” della Rioja.

Per finire la Wine Legend, anch’essa spagnola, un Viña Tondonia Blanco 1964 di López de Heredia.

Poi, naturalmente,  ci sono le consuete rubriche e le pagine dei columnist.  In breve i panel tasting, partendo dalla Rioja: quella del 2010 é stata un’ottima vendemmia,  abbastanza tardiva, con condizioni meteorologiche ideali da settembre  a fine ottobre, prolungata da un’ottima (pur se  meno complessa) annata 2011, a precedere invece tre  annate (2012,  2013 e 2014) più “challenging”. Punteggio più alto, 96/100, alla Grand Reserva Cerro Añón di Olarra (nota come “la cattedrale di Logroño” per la bellezza e l’imponenza della winery).

La mencia é una varietà  in passato abbastanza oscurata dal tempranillo, ma che recentemente ha avuto una notevole quanto rapida crescita di popolarità. Chiamata il Pinot della Spagna, da altri avvicinata al Cabernet Franc, non ha nulla in comune con entrambe queste uve. Si trova soprattutto in Galizia e  nella Castilla y Leon settentrionale, ed é ingrediente fondamentale di varie DO, come Bierzo, Monterrei, Ribeira Sacra e Valdeorras.

I vini presi in esame sono principalmente quelli delle annate 2015-2017, con qualche vino più vecchio, delle annate 2011-2013. La parte del leone la fa Bierzo: sono appunto due vini di quest’area a  spuntare  le valutazioni di vertice secondo Decanter e più della metà di quelli selezionati tra i migliori viene da questa DO.

Tempranillo: una  varietà a bacca rossa diventata negli ultimi decenni la più conosciuta e popolare della Spagna, spina dorsale dei vini della Rioja e della Ribera del Duero. Tra i 40 migliori, selezionati da Pedro Ballesteros Torres e Jane Evans, i punteggi più alti vanno a un Ribera del Duero (il Peñas Aladas Gran Reserva 2012 del Dominio del Aguila , nuova icona del vino iberico) e a un Rioja (Dalmau Reserva 2014del Marquès de Murrieta), entrambi con 98/100.

Tra gli altri articoli  mi sembrano abbastanza interessanti  per i lettori italiani quelli dedicati ai bianchi di Spagna, perché da noi meno conosciuti:  rispettivamente i garnatxa blanca di Terra Alta (ampia DO catalana) e i Verdejo della Rueda (Castilla y Léon).

Terra Alta é un terroir caratterizzato da un clima continentale-mediterraneo unico: caldo ma non torrido d’estate , ha escursioni termiche notturne considerevoli (anche di 20°). Queste caratteristiche, associate a vigne generalmente alte, tra i 300 e gli 800 metri,  preservano le  acidità, rallentando la produzione di zuccheri e favorendo la produzione di vini ricchi di sfumature e grande freschezza.

Peccato che essa sia stata finora considerata una specie di serbatoio inesauribile delle grandi case catalane per la produzione di vini   cross-regionali. Quanto a Rueda , il suo Verdejo trae grande beneficio dal clima continentale estremo: in questa regione sono ancora numerose le  vigne a piede franco, essendo la regione scampata alla fillossera grazie ai  suoi suoli sabbioso-ciottolosi.I vini di Rueda hanno freschezza acida, aroma complesso di erba, finocchio selvatico, fiori di campo e agrumi, piacevolmente amarognolo.

La loro popolarità resta ancora però principalmente nazionale, pesando ancora relativamente poco sulle esportazioni, rispetto, ad esempio, ai Rias Baixas.

Voglio accennare infine a due temi  abbastanza trasversali, affrontati in questo numero , che non fanno parte degli articoli principali, che mi sembrano di un certo interesse . Il primo si riferisce  all’inesorabile crescita dei gradi di alcol nei vini, legata al riscaldamento ambientale. Ne parla Tim Atkin, autore ed editorialista di Decanter nella sua “Lettera dalla Rioja”, nella quale osserva che, nel 1890, negli anni che precedettero l’arrivo della fillossera,i rossi della Rioja Alta avevano spesso solo 10 gradi di alcol e 12 erano considerati un risultato più che soddisfacente.

Se le zone più fredde della Rioja Alta (dove si producono oggi le migliori Garnacha) come l’Alto Najerilla e le vigne più alte della Sonsierra, sul lato nord dell’Ebro, nelle quali l’uva  aveva sempre avuto difficoltà a raggiungere la maturazione, sembrano oggi avvantaggiarsi del riscaldamento climatico, avvenuto cominciato nel 2001, altrove i migliori produttori sono costretti a spostarsi sempre  di più verso i siti più alti per recuperare equilibrio e freschezza nei  loro vini .

Quelli che si trovano nelle zone più calde e non hanno la possibilità di accedervi, cercano di compensare gli effetti del calore  anticipando la vendemmia, oppure aggiungendo una percentuale maggiore di Mazuelo o Graciano  (entrambe varietà con alti livelli di acidità) nei loro blends. Se oggi gli effetti della  crescita delle temperature sono stati in gran parte positivi (nell’area di Sojuela, Nalda, Entrena e Abelda e a Sonsierra i vini delle ultime annate, per Atkin, sono probabilmente i migliori di sempre), gli effetti negativi non mancano e sono sicuramente destinati ad aumentare, innalzando il livello della sfida contro i cambiamenti  climatici.

L’aumento inarrestabile dei gradi di alcol, come lamenta un lettore a commento dell’articolo di Jefford pubblicato a dicembre  che tesseva l’elogio di quei vini ad alta gradazione, che uniscono potenza e finezza, comporta il rischio di  una perdita di identità dei vini, confondendo quasi, in certi casi, i confini tra un vino  normale e un vino fortificato. Difficile non condividere questa preoccupazione di fronte ad un Bordeaux di Pessac con  15° di alcol (sessant’anni fa si raggiungevano con difficoltà  i 12) o un Amarone alle soglie dei 17°. L’innalzamento dei gradi di alcol sta lentamente modificando l’identità dei vini così come li conosciamo. Berremo dei Borgogna a base di carignan?

Il secondo tema al quale voglio solo accennare é quello delle vecchie vigne.  I vini che ne provengono da vigne centenarie sono davvero migliori di quelle più giovani, o si tratta solo di un espediente commerciale, volto ad  attrarre maggiormente i consumatori? Ne parla in un breve articolo nella parte finale della rivista Natasha Hughes. Innanzitutto si dovrebbe chiarire quando una vigna può  essere definita “vecchia”, tema sul quale non vi é pieno consenso.

Nel Nuovo Mondo, una vigna é considerata vecchia dopo i 35 anni. Per altri, invece, come Fernando Mora, ne occorrono di più perché si possa cogliere la differenza rispetto alle vigne più giovani: 35-40 anni sono quelli necessari per cominciare a percepire un qualche cambiamento, ma per cogliere davvero la maggiore profondità di un vino da vigna vecchia ne occorrono almeno 70 e più.

Steve Webber  afferma che un nuovo impianto richiede almeno una decina di anni per cominciare a produrre un buon vino e 25 per un grande vino.  L’età della vigna però non é il solo criterio utile per produrre grandi vini, e di per sé spiega relativamente poco. Vi sono però alcune caratteristiche associate all’età delle vigne che possono avere effetti importanti sulla qualità.Una di esse é la riduzione sensibile delle rese, per la quale i vini da vigne vecchie hanno una maggiore concentrazione, anche se non é facile separare questo aspetto da altri fattori, come le pratiche colturali o lo stato del suolo.

Le vigne vecchie,grazie alle loro radici profonde,  rispondono inoltre meglio allo stress idrico, adattandosi bene ai periodi di siccità, mentre i ceppi giovani vanno subito in difficoltà e richiedono di essere soccorsi dall’irrigazione.L’età della vigna ha la capacità di moderare l’eccessivo vigore delle  viti di impianto recente. Questo può rappresentare un beneficio a seconda  della varietà considerata. Varietà rustiche e molto vigorose, come il carignan, si avvantaggiano enormemente dell’invecchiamento delle vigne, acquisendo maggiore finezza, così come anche il carmenère, nel quale ha l’effetto di ridurre  l’eccessiva marcatura vegetale diminuendo il  livello delle pirazine, che ne sono responsabili.

Le vigne vecchie tendono in definitiva ad esprimere il terroir meglio di quelle più giovani, maggiormente dominate dalla varietalità, anche se ciò potrebbe essere meglio compreso considerando, oltre all’età,  nel loro insieme, gli effetti del microbioma (secondo la definizione del genetista e microbiologo Joshua Lederberg, l’insieme del patrimonio genetico   e delle interazioni ambientali della totalità dei microrganismi di un ambiente definito). Insomma un tema intrigante e complesso, al quale va aggiunto il fascino intrinseco delle vigne di età più venerabile, testimoni di un’eredità di un mondo che  si va perdendo.

Guglielmo Bellelli

Nella mia prima vita (fino a pochi anni fa) sono stato professore universitario di Psicologia. Va da sé: il vino mi è sempre piaciuto, e i viaggi fatti per motivi di studio e lavoro mi hanno messo in contatto anche con mondi enologici diversi. Ora, nella mia seconda vita (mi augurerei altrettanto lunga) scrivo di vino per condividere le mie esperienze con chi ha la mia stessa passione. Confesso che il piacere sensoriale (pur grande) che provo bevendo una grande bottiglia è enormemente amplificato dalla conoscenza della storia (magari anche una leggenda) che ne spiega le origini.


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