È un periodo assai positivo quello che in questi anni si sta vivendo dentro e intorno al vino. Me ne accorgo una volta di più degustando i vini siciliani di ultima generazione, ad esempio. Lo scorso 18 ottobre, al culmine di numerosi assaggi e viaggi insulari svolti negli ultimi sei mesi, e in occasione di una degustazione pubblica organizzata dalla delegazione di Onav Parma, mi sono occupato della Sicilia del vino di oggi, molto diversa dalla Sicilia del vino di ieri.
La Sicilia, come e più del resto del Mezzogiorno, dispone di un patrimonio di risorse, innanzitutto umane, ma anche ambientali e culturali, poco o male utilizzate. Ancora troppo forte rimane la diversa convenienza nel fare impresa tra Nord e Sud in termini di dotazione di infrastrutture, disponibilità di servizi pubblici e privati, presenza di manodopera qualificata, distanza dai mercati di sbocco e via dicendo.
Tuttavia il vino è una luce che – seppur a intermittenza – illumina una regione che vuole rilanciarsi e custodire l’essenza del suo terroir, trasferendolo alle generazioni future, nella speranza che il riscaldamento globale non si riveli (come dicono) così implacabile da scompaginare l’intera esistenza agricola (e umana) dei prossimi decenni.
Per il tema del mio intervento ha tenuto in considerazione solo la punta dell’iceberg del vino siciliano, passando sotto silenzio l’enorme massa di vino industriale nelle mani di cooperative e imbottigliatori (che ancora oggi rappresenta la fetta di gran lunga più cospicua della produzione regionale).
L’introduzione della mia lezione è trascritta nelle pagine che seguono: la pubblico qui per il piacere di condividere alcune riflessioni con chi non ha partecipato al laboratorio di Parma. Ringrazio Carlo Macchi per lo spazio e la fiducia, i miei lettori per l’attenzione e l’intero consiglio di Onav Parma per l’opportunità e la collaborazione. Grazie inoltre ai numerosi degustatori che hanno animato la lezione del 18 ottobre con vero entusiasmo. Con un pensiero speciale per il bravissimo Fabrizio Bandiera e per la dolce Maura Pati.
Sono felice che siate in tanti. Non per me, perché io preferisco lavorare con classi più piccole, essendo una persona molto emotiva. Sono felice per la Sicilia e per tutti i vignaioli siciliani. Tutti, dal primo all’ultimo. Sono felice per questa nuova idea di Sicilia che va prendendo forma negli ultimi anni. Per questa Sicilia che si mette in discussione, che non ha timore di mostrare le sue debolezze, che coltiva il dubbio come pregio, che prova a reagire agli stereotipi, che mette sulla sua mappa enografica tante ipotesi di vino, tante quante sono le innumerevoli vocazioni di una regione enorme e complessa.
Se qualche anno fa avessi proposto una degustazione siciliana orfana dei vini di Abbazia Santa Anastasia, Benanti, Cos, Cusumano, Donnafugata, Duca di Salaparuta, Firriato, Hauner, Morgante, Murana, Palari, Planeta, Spadafora, Tasca d’Almerita e altri pezzi da novanta (ovvero di quelle aziende – citate e non citate – divenute arcinote nella seconda metà di quel decennio), sono certo che avrei avuto poche alternative da raccontate e molti di voi avrebbero disertato questa serata.
Invece abbiamo qui una nutrita batteria di vini di rilievo (e avrei potuto sceglierne altrettanti di pari dignità) e la vostra partecipazione supera ogni mia aspettativa, confermando che non è solo cambiato il vino italiano, ma sono cambiati gli assaggiatori italiani. Anzi: se il vino italiano sta andando in una direzione (a mio avviso) sempre più credibile è perché voi appassionati siete sempre più curiosi e disponibili al viaggio.
Non so quale sia il vostro punto di vista sul nuovo vino italiano, magari lo scopriremo insieme strada facendo. Nel frattempo vi anticipo che il mio è positivo: trovo questi anni attraenti e divertenti. E lo dico da una posizione laica, che mi fa parteggiare per i vini di terroir, che mi fa palpitare il cuore per i vini artigiani, che mi fa emozionare per certi vini arditi e scapigliati, ma rinunciando sempre a ogni ottuso radicalismo.
Dicevo che mi diverte mettere il naso nel vino italiano contemporaneo e la Sicilia non fa eccezione. Della Sicilia mi incuriosisce, va da sé, una proposta diversa rispetto a quella “californiana” della quale hanno raccontato a noi enofili una ventina di anni fa. Ve la ricordate? Si parlava di un eldorado di vini ricchi, morbidi, colorati. Ed era tutta una corsa a esaltarsi per un boccone di mango e per un morso di prugna; tutta una corsa a farsi abbracciare da morbidezze accoglienti e densità melliflue. Ci parlavano della Sicilia come dell’anticamera del Nuovo Mondo, come un posto di vini gialli o neri; fruttati e alcolici, senza possibili vie di mezzo. E guai a mettere in bottiglia un vino meno che massivo.
Se tanto mi dà tanto, se ciò che assaggio oggi corrisponde al vero, se tutto quello che andremo a bere nelle prossime tre ore non è solo un mio fraintendimento critico, allora la Sicilia in questi anni è molto cambiata. O almeno una parte di essa. Ciò che appare evidente sfogliando le pagine di questa nuova storia, è che si fa strada una Sicilia che non ringhia e che non esplode; disintossicata dal doping delle surmaturazioni e del legno. E che finalmente restituisce dignità ferita a vitigni e terroir.
Emerge, tra le pieghe di stagioni anche difficili sotto parecchi punti di vista, una Sicilia critica, che ai vini che “dimostrano” il luogo d’origine predilige i vini che dialogano con il luogo d’origine. La differenza mi pare sostanziale.
È di quest’isola che racconteremo stasera. Una terra bellissima, con tante donne e tanti uomini giovani, pieni di energia e capaci di smontare pezzo per pezzo molti luoghi comuni che mortificano o esaltano la Sicilia del vino, consegnandoci un panorama alternativo, con tanta misura in più, con tanta normalità in più e allo stesso tempo con tanti colori in più rispetto al passato.
Parleremo di un gruppo di vignaioli che meritano le nostre attenzioni perché rispettano le vocazioni dei territori senza dimenticare che i territori vengono prima di tutto abitati da essere umani che pensano, si confrontano e sono pronti a provare, esplorare e rischiare.
L’impressione che ne traggo da questo cambiamento – e che mi spinge ad appassionarmi a questa nuova edizione del vino siciliano – è di una regione che vive per migliorarsi. Che non ha cancellato i suoi limiti ma sta provando a comprenderli. Non è forse questo il modo più efficace di stare dalla parte della terra e del bevitore colto? Io credo di sì.
La Sicilia è un mondo a sé, per natura e per cultura, per geografia e per storia. La sua è una beata solitudine: i maligni dicono che il modo più veloce per arrivare da Reggio Calabria a Palermo è fare scalo a Roma, ma si sa che i luoghi più impervi sono anche i più preziosi. E la Sicilia è preziosa. Preziosa assai. Per alcuni è la coda d’Italia, ma in realtà ne è il capo: è l’inizio della civiltà e della vite.
La Sicilia è preziosa perché basta frequentarla una sola volta per rimanerne travolti, basiti. Per essere centrifugati dal normanno, riempiti di greco, sciroccati d’arabo e glassati di barocco. Bastano poche ore e si torna a casa cambiati, veriddio. La Sicilia è preziosa perché è sufficiente guardare una mappa per capire il miracolo della sua posizione: un enorme pezzo di terra inghiottito dal Mediterraneo. Per il Duca di Càrcaci è un brillante gettato in mare dal Padre Eterno per fare un regalo al mondo, e ha ragione.
Ha ragione chi della Sicilia dice che non si sa bene se sta a Nord dell’Africa o a Sud dell’Europa; e chi dice che è sintesi vivente e morente di un paradosso geografico. Ha ragione anche chi ammette che la Sicilia è irritante, perché è nera o bianca: quella barbara che accoltella nel nome dell’onore e quella emancipata, che biasima mafiosi e omertosi. Ha ragione chi ci racconta di una regione pessimista, di un pessimismo atavico, meridionale, che corteggia la morte con la bibbia in mano, senza aspettarsi redenzioni in terra. E ha ragione chi ce la descrive come una comunità che guarda al futuro con speranza, tenacia, lungimiranza e intelligenza. In Sicilia il testacoda è di casa.
Ma più che altro è di casa la vite, da almeno quattromila anni. Ci sta comoda, come noi la domenica pomeriggio sul divano di casa. Perché se altrove, in particolare nel Nord Europa, la vigna deve soffrire le pene dell’inferno per arrivare a maturare i suoi frutti, in Sicilia Madre Natura le ha organizzato una Spa con ogni tipo di comfort.
Se a Bordeaux, in Borgogna e in Champagne, ma anche in Toscana e in Piemonte, le dinamiche dell’annata sono decisive per valutare gli esiti di una denominazione o di una tipologia, in Sicilia pure in condizioni difficili si porta a casa un risultato lusinghiero. E si badi bene, spesso le vendemmie più complicate da quelle parti non sono quelle fredde, ma quelle troppo calde. E così, se si esalta l’acidità al Nord i vini vengono rigidi; viceversa se si esaltano le componenti morbide al Sud i vini appaiono larghi, goffi, privi di mordente.
Per molti anni la Sicilia ha partorito solo liquidi bollenti e prevedibilmente appiattiti su un cliché cremoso per i bianchi, cioccolatoso per i rossi e appiccicoso per i vini dolci. Per molti anni abbiamo creduto che la Sicilia fosse sinonimo di vino rosso (anzi, nero) e che i bianchi giocassero un ruolo marginale. Invece non è così e alcuni bottiglie che berremo questa sera faranno cambiare idea anche ai più scettici.
È vero che le eccezioni non sono mai mancate e che anche in passato la Sicilia ha prodotto vini molto buoni, ma se per decenni si è creduto opportuno dare tanto spazio a Syrah, Chardonnay, Merlot e Viognier, allora evidentemente qualcosa non ha funzionato. Perché si può andare contro natura, ma poi occorre accontentarsi. E accontentarsi, in una regione straordinaria come la Sicilia, suona come il più offensivo degli ossimori.
La ricerca del contrasto, della misura e del dialogo con il territorio arriva qui più tardi che non altrove. Allo stesso tempo è piuttosto recente l’interesse generalizzato verso i vitigni autoctoni, mettendo finalmente in dubbio l’efficacia di piantare ovunque una sola uva (ad esempio il Nero d’Avola): su questo tema Salvo Foti, capofila della Nuova Sicilia, dice e scrive (da molti anni ormai) cose di una forza straordinaria. Se il lavoro dei bravi vignaioli siciliani è orientato oggi a leggere e interpretare il terroir, ragionando sul prima più che sul dopo, come si fa in tutte le zone viticole estreme del pianeta, una parte del merito è certamente di Salvo Foti – e con lui del compianto Marco De Bartoli.
Salvo rarissimi millesimi eccezionalmente umidi (il 2018 è tra questi), in Sicilia la vite ha bisogno di pochi trattamenti. Il clima asciutto e la continua ventilazione mettono nelle condizioni il viticoltore di gestire la pianta con un minore impatto di fitofarmaci. Non è un caso se la Sicilia è la regione di gran lunga più “Bio” d’Italia e tra le più pulite dell’intera Europa viticola.
In Sicilia le nuvole sono rare, non piove quasi mai e quando piove è troppo tardi oppure fa disastri. Anche in questo, è una regione estrema. In verità la Sicilia è estrema per tanti motivi. Lo è per il caldo, per le scarse precipitazioni, per la precocità delle maturazioni (soprattutto delle uve internazionali) e per le altitudini notevoli, che compensano una latitudine bassa. La Sicilia è estrema anche per dimensioni regionali, che sono ampie ed eterogenee: non si può parlare solo di Sicilia, ma intendere bene dove ci si trovi. Dall’Etna a Marsala, da Vittoria a Valledolmo, da Faro a Menfi, da Ustica a Pantelleria, i punti di contatto sono pochi e le divergenze molteplici.
Da quelle parti per fare vini realmente buoni, espressivi e dotati di minuzie, occorre essere produttori sensibili, che conoscono per filo e per segno le caratteristiche del proprio territorio: qui l’uomo è davvero decisivo, la sua visione, la sua tecnica, le sue ambizioni valgono quanto – se non addirittura più – della terra, dell’uva, dell’esposizione e del clima.
In questi mesi di lezioni sulla Sicilia Nuova ho sempre scelto di raccontare l’esperienza di vignaioli molto bravi, che negli ultimi anni – e alcuni di loro già da molti anni – vanno dimostrando che la Sicilia è capace di imbottigliare liquidi pieni zeppi di personalità e di minuzie. E che dunque un’altra Sicilia è possibile.
Vincenzo Angileri, Marilena Barbera, Nino Barraco, Gipi De Bartoli, Gianfranco Daino, Salvatore Ferrandes, Tonino Guzzo, Salvo Foti, Alberto Graci, Federico Graziani, Margherita Longo, Guglielmo Manenti, Arianna Occhipinti, Piero Portale, Nunzio Puglisi, Girolamo Russo, Marco Sferlazzo, Fabio Sireci, Aldo Viola, Alessandro Viola. Eccoli i protagonisti di questi miei racconti siciliani.
Ad esempio, grazie alla loro testimonianza oggi sappiamo che in tanti luoghi di quella regione si possono ottenere vini dalla forte temperatura emotiva e dalla moderata gradazione alcolica: caldi nell’espressione, non per forza nell’alcol e negli estratti. Giganteschi non tanto nei dati analitici, quanto nel sapore. Direi che la differenza è clamorosa.
La sensazione è che oggi una parte della Sicilia ha preso consapevolezza di dove sta, di ciò che è, di cosa è necessario fare. La prima cosa che salta al naso (e soprattutto al palato) è che ha imparato a fare vini buoni prima ancora che belli. E che anzi appaiono belli (spesso bellissimi) perché non sono più pensati per esserlo. Perché la loro bellezza è segnata da una smorfia, da una cicatrice (io adoro le cicatrici), da piccole imprecisioni, da certe fragilità.
Oggi la bellezza del nuovo vino siciliano forse non pareggia i conti con la piramide di problemi con cui quella terra deve convivere ogni santo giorno, ma almeno consegna ai produttori piena dignità di interpreti e a noi bevitori l’archetipo del grande vino Mediterraneo, che non è solo calore, ma è qualcosa di più sottile. E di più emozionale.