InvecchiatIGP: Vigna d’Alceo 1997, Castello dei Rampolla4 min read

In questa rubrica non parleremo dei problemi geriatrici di qualcuno di noi (anche se sarebbe utile). Il nostro intento è quello di andare a scovare e raccontare i vini italiani “non giovanissimi”. Abbiamo pensato a questa dizione perché non parleremo quasi mai di quelli che vengono definiti “vini da grande invecchiamento” ma cercheremo sorprese, chicche, specie tra vini che nessuno si aspetterebbe.

Quando uscì quest’etichetta, nel 1996, in un’epoca in cui la Toscana stava attraversando la fase dell’internazionalizzazione dei propri vini, fra barriques, tonneaux, vitigni francesi e non solo, nuove tecnologie in vigna e cantina, la guida Vini d’Italia 1999 (che a quel tempo era ancora condivisa Gambero Rosso/Arcigola Slow Food) gli assegnò d’emblée il premio come vino dell’anno.

Erano tempi in cui il prezzo di un vino poteva lievitare fortemente in base ai premi ricevuti, anche se era già in commercio. L’odore dei soldi è magico, manda senza esitazione l’etica a farsi benedire. Ma tralasciamo questo particolare, anche perché in questo caso il Vigna d’Alceo partì già con un valore piuttosto alto per quei tempi, ricordo che nelle pochissime enoteche romane che erano riuscite ad accaparrarsi qualche bottiglia, si vendeva attorno agli 80 euro. E questo non impedì che quelle poche migliaia di bottiglie prodotte sparissero in un battito d’ali.

Del resto l’arrivo di Giacomo Tachis nell’azienda di Alceo di Napoli Rampolla, era già una garanzia di successo, molti produttori avrebbero fatto carte false per poter avere la consulenza dell’enologo più famoso del momento. Fu proprio lui a convincere Alceo a impiantare cabernet sauvignon e petit verdot a Panzano in Chianti, non a Bolgheri! Ovviamente la prima rivoluzione avvenne tra i filari, con le rese che si abbassarono in modo repentino, fino ad arrivare a soli 300 grammi d’uva per pianta, con conseguenti concentrazioni di sostanze un tempo impensabili e vini dal colore violaceo-nerastro impenetrabile. In pratica l’emblema dei famosi “Supertuscans”, che per un buon numero di anni hanno spopolato, in molti casi con prezzi da capogiro, aprendosi molto bene al mercato estero (perché da noi chi se li poteva permettere…).

La seconda uscita del Vigna d’Alceo fu la 1997, dichiarata “annata del secolo” in un momento in cui il vino italiano era in pieno sviluppo: fu uno slogan perfetto dal punto di vista commerciale, tanto che favorì la diffusione dei cosiddetti vini “en primeur”, prenotati e pagati in anticipo prima di vederli in enoteca. La cosa per un po’ ha funzionato piuttosto bene, poiché il vino “en primeur” aveva il prezzo bloccato e ti proteggeva dai possibili aumenti in caso di successo. Il Vigna d’Alceo 1997, ad esempio, alla sua uscita in commercio si aggirava sui 100 euro, ma nel giro di un semestre, ammesso che fosse possibile ancora trovarne qualche bottiglia, ce ne volevano 130-150. Ma questa è storia…

Insomma, stappiamo questo ’97, 85% cabernet sauvignon e 15% petit verdot, conservato rigidamente in cantina climatizzata, al buio, coricato, in assenza di vibrazioni e di luce, ovvero nella condizione ottimale per durare nel tempo.

Bene, posso tranquillizzarvi subito, il tappo ha tenuto in modo perfetto e il vino non presenta alcun difetto, né pericolose ossidazioni. Il colore ha ancora una tonalità vivace, cuore rubino che digrada verso il granato. Come è doveroso fare dopo oltre vent’anni di chiusura, lo facciamo respirare a lungo, molti minuti, non perché ne abbia particolare necessità, ma per farlo aprire il più possibile.

Basta fare un paio di immersioni olfattive per rendersi conto che il vino è vergognosamente in pieno vigore, a tal punto che i prevedibili profumi terziari spinti sono totalmente disattesi, non vi è alcuna traccia di funghi, cuoio conciato, ceralacca e quant’altro potrebbe denunciarne almeno una condizione da “brizzolato”.

Macché, più passa il tempo e più il frutto emerge potente, viscerale, ribes nero davanti a tutti, ma anche un tocco di ciliegia matura, senza cenni alla confettura. Avvincente nei successivi richiami a cacao, menta, tabacco, ginepro e leggera ematite, il tutto in un’atmosfera estremamente sobria e vitale; a volte la lunga ossigenazione può produrre improvvise regressioni, qui invece tutto è perfettamente in tiro, vibra come un diapason, un’onda armoniosa che si affievolisce molto lentamente.

Ne provo un sorso e trovo una sintonia perfetta, un’armonia di suoni che rasenta la percezione tattile, non ho mai pensato a un vino in senso squisitamente fisico, corporeo, ma qui è davvero il caso. Va detto per amor di cronaca che il tannino è pura seta e che, nonostante l’annata fu piuttosto calda, qui siamo a 13 gradi alcolici, un valore oggi quasi impossibile da ottenere con queste rese, a tutto vantaggio di un gusto intenso ma mai pesante, dal tocco dolce, affabile, ti circuisce con i guanti di velluto.

Davvero sorprendente, forse il migliore supertuscan classe 1997, per tenuta ed eleganza, che mi sia capitato di assaggiare in anni recenti, e detto da uno che non li ha mai amati…

Nota a margine: in seguito il nome in etichetta è divenuto semplicemente “D’Alceo”.

Roberto Giuliani

Roberto Giuliani è il direttore di Lavinium. È anche un appassionato e bravissimo fotografo.


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