In questa rubrica non parleremo dei problemi geriatrici di qualcuno di noi (anche se sarebbe utile). Il nostro intento è quello di andare a scovare e raccontare i vini italiani “non giovanissimi”. Abbiamo pensato a questa dizione perché non parleremo quasi mai di quelli che vengono definiti “vini da grande invecchiamento” ma cercheremo sorprese, chicche, specie tra vini che nessuno si aspetterebbe.
Il tempo passa non solo per le bottiglie di vino, ma anche e soprattutto per gli uomini. E coll’avanzare dell’età ti trovi sempre più spesso a fare i conti con un passato in cui bevute, persone ed episodi della tua vita tendono a sovrapporsi.
Non ho potuto fare a meno di pensarci (e di ritrovarmici) lo scorso 23 maggio, quando la lotteria dei ricordi mi ha riprecipitato a Villa Calcinaia, nel Chianti Classico grevigiano, dove i Capponi festeggiavano il 500° dell’acquisto e dell’ininterrotta proprietà con una festa in grande stile, piena di aneddoti, di storia, di amici e di grandi nomi della Gallo Nero, dell’enologia e del giornalismo. Cinque secoli celebrati come si deve e anche col signorile disincanto che da sempre connota Tessa, Niccolò, Sebastiano e relative proli, odierni componenti dell’antica famiglia comitale.
Ma per me che, da vecchio compare di bagordi, in quei posti ho cavalcato tanti anni fa le indimenticabili epopee giovanili che Pete Townshend ha liricamente definito teenage wasteland, il tuffo al cuore è stato doppio.
Ometterò comunque il racconto dei momenti lieti e scapigliati lì vissuti da teenager e che, se mi leggerà, Niccolò non avrà difficoltà a ricordare, e mi dilungherò invece sul Chianti Classico Doc 1969 stappato, tra altre vecchie bottiglie, per l’occasione.
Su come sia stato fatto, Sebastiano, che dal 1992 segue l’azienda personalmente, non si dilunga troppo: “Sangiovese 85% e altre uve complementari 15%, tini di castagno. Per il resto boh: non c’è traccia delle note di cantina”, precisa. L’etichetta annuncia 12,5° di alcool.
Non ho assistito alla stappatura, quindi nulla posso dirvi in proposito.
La tenuta del colore, nonostante l’intorbidimento, è sorprendente.
Al naso il vino è fatalmente evoluto e i sentori terziari sono pungenti, in prima linea: sottobosco, muschio, cuoio grasso e tartufi che lasciano poi spazio a echi di liquirizia e a lontane, suadenti note balsamiche. Anche in bocca l’età si fa sentire, ma le sorprese non mancano nemmeno qui grazie a qualche residuo di acidità, qualche nota succosa e qualche tannino superstite capaci di rendere il vino una sorta di fossile, un’esperienza da cristallizzare nella memoria, da tenere bene a mente come qualcosa appartenente a un Chianti Classico che non esiste più. La definirei una bevuta elegiaca e didattica, prima ancora che celebrativa, e che comunque, cinquantacinque anni dopo, è ancora in grado di dare soddisfazioni. Un po’ come riascoltarsi i nastri del festival di Woodstock, che si svolse appena un paio di mesi prima di questa vendemmia.