Il vino naturale è morto, viva il vignaiolo naturale!3 min read

Nell’arco di pochi giorni due importanti rappresentanti del mondo del vino cosiddetto naturale, Stefano Amerighi e Alessandro Dettori, hanno fatto dichiarazioni con molti punti in comune, in particolare uno molto importante che potremmo sintetizzare con “Il vino naturale è morto, viva il vignaiolo naturale.”

Proviamo a cercare di capire il perché di questa affermazione. Secondo me entrambi si rendono conto che nel mondo del vino cosiddetto naturale sono entrati o stanno entrando “nani e ballerine” e quindi occorre in qualche modo mettere un freno a quella che oramai è sempre più una moda, staccata dalla terra, dalle tradizioni familiari, dalla storia, che dovrebbero averla generata.
Il bello (o il brutto) è che il vino cosiddetto naturale rischia di essere sorpassato a destra e sinistra, da una parte da chi produce vini spesso tecnicamente sbagliati o sciatti e riesce a venderli solo presentandoli come naturali, dall’altra da grandi o grandissime aziende cosiddette industriali che, tra i loro mille prodotti, non hanno problemi a produrre anche un vino cosiddetto naturale e pubblicizzarlo con forza.

In poche parole i due produttori, che stimo molto, stanno cercando di dire (in primo luogo agli amanti dei vini cosiddetti naturali e poi all’universo mondo) che è l’ora di finirla di essere generalisti, di accettare ogni prodotto posto sotto l’egida “naturale”: bisogna crescere, conoscere, riconoscere e capire se dietro ad un vino c’è un produttore che lavora con una certa etica oppure solo qualcuno che ci marcia e per farlo magari si veste obbligatoriamente da contadino a cui manca solo la pagliuzza tra i denti.

Fino a qui le cose mi quadrano e ammiro i due produttori per la chiarezza, la verità e la forza che mettono nel loro messaggio.
Però sia in quanto detto da Amerighi che da Dettori non ho trovato una sola volta espresso il concetto di “bontà del vino”.

Anche Slow Food, associazione certo vicina al mondo del vino cosiddetto naturale, a suo tempo aveva teorizzato il concetto di “Buono, pulito e giusto” e sono il primo a riconoscere che tanti vini cosiddetti naturali sono buonissimi, come lo sono tanti cosiddetti industriali.
Forse sono io legato a vecchi concetti ma fondamentalmente, visto che il vino non è certo un prodotto medicamentoso passato dalla mutua, il primo motivo per cui si dovrebbe berlo è perché ci piace e ci piace perché è buono. Naturalmente sul concetto di buono ci possiamo dividere all’infinito, ma quel concetto, qualsiasi vino si produca, deve esistere e deve essere discusso: non può essere messo nel dimenticatoio o surclassato dal fatto che un certo tipo di conduzione di vigna e di vigneto, una storia alle spalle, un’idea che si trasforma in modo di vivere, a priori sdogani qualsiasi prodotto.

Se così fosse, parlando di produttori naturali, si cadrebbe dalla padella nella brace, perché probabilmente si assisterebbe da una parte a un specie di carneval-contadino, con personaggi improbabili che cercano di mettersi ancora più in mostra per poi rifilarti un prodotto scadente, dall’altra nascerebbero storie di famiglia che inevitabilmente, anche se possiedono 1000 ettari in tutto il mondo, hanno alla base un nonno che da sempre faceva vino naturale e che ha insegnato a tutti a farlo, anche a pronipoti mai conosciuti.

Uno dei semplici concetti geometrici che sono riuscito ad imparare recita che una retta per essere tale deve passare almeno da due punti e secondo me il vino cosiddetto naturale (alla pari di quello cosiddetto industriale) per poter evolversi deve passare in primo luogo dalla conoscenza e credibilità del produttore/contadino, ma subito dopo arrivare al secondo punto della retta, quello della qualità del vino prodotto. Entrambi devono essere inscindibili altrimenti avranno gioco facile i nani e le ballerine, da qualsiasi parte essi arrivino.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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