Chi mi segue sa che amo molto il Gavi, questo bianco che ho incontrato sulla mia strada più di 20 anni fa e che ho visto ricrescere (aveva avuto un grande boom tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, per poi cadere nel dimenticatoio enologico) e riaffermarsi.
A Gavi mi legano amicizie, ricordi e soprattutto l’idea di un vino che era “verticale” prima che il termine venisse coniato. I Gavi di 10-15-20 anni fa avevano la sfrontatezza di presentarsi al mondo con una freschezza quasi tagliente quando tutti cercavano vini rotondi, con un naso solo inizialmente poco espressivo quando erano di moda (lo sono ancora) vini con gamme aromatiche figlie non tanto di lievito madre ma di lieviti selezionati che portavano (e portano) aromi intensi, tutti uguali e di vita breve. Era un vino che andava controcorrente senza saperlo, tanto che dovetti più volte farlo presente a colleghi di altre guide, che andavano a degustarlo senza l’interesse e l’attenzione che meritava e merita tutt’ora.
Ma il tempo passa e accanto ai figli che crescono e alle mamme che imbiancano c’è il clima che cambia e non poco.
Questi cambiamenti hanno prima permesso al Gavi di diventare più rotondo, di sviluppare aromaticità più ampie e complesse, di diventare insomma un vino “più moderno” o comunque più adeguato al mercato. E il mercato gli ha dato ragione e sta continuando a dargliela, però bisogna ammettere che oramai è un vino molto diverso da quando l’ho conosciuto.
In questi casi mi viene sempre in mente la frase del mio amico Peter Dipoli sull’impossibilità di mettere un cric sotto alle colline per alzarle e questo è il caso di Gavi, che si trova un clima molto diverso ad altezze che difficilmente superano i 350-400 metri. Se non si può usare il cric però si può e si deve usare le conoscenze agronomiche e qui non tutti lo fanno.
La vendemmia 2020 ne è la dimostrazione, con una serie di vini molto maturi al naso e molti altri invece che mostrano freschezza e dinamicità aromatica anche se, come oramai accade per la stragrande maggioranza dei bianchi italiani, i Gavi andrebbero degustati almeno a partire novembre-dicembre dell’anno successivo alla vendemmia, oppure stappati e fatti aprire molto prima, cosa che nelle degustazioni seriali è praticamente impossibile. Ho detto praticamente perché quest’anno per il mio amato Gavi abbiamo fatto una cosa “in più” rispetto al normale: ci siamo presi un bel numero di seconde bottiglie e, una volta arrivati in ufficio le abbiamo riassaggiate lasciandole aperte (in frigo) per almeno 3 ore e dobbiamo ammettere che le cose sono cambiate in meglio rispetto all’assaggio. Diversi vini hanno mostrato più ampiezza al naso ma soprattutto un corpo e una rotondità che al prima assaggio mancava.
In definitiva: La 2020 è un’annata particolare a Gavi, con grandi diversità soprattutto aromatiche ma, se togli quel ristretto numero di vini che non mostrano nasi ipermaturi (e alcuni con aromi stranissimi per la tipologia) il resto è di buon livello, a patto che gli si dia un po’ di tempo.
Ultimo argomento che trattiamo riguarda un annoso problema per Gavi, quello dei tappi. Siamo convinti che alcuni vini che abbiamo riassaggiato erano stati penalizzati nella prima degustazione da problemi di tappo, di qualsiasi tipologia di tappo, naturali o tecnici. Una delle cose su cui dovrebbe puntare il consorzio (che ringraziamo come sempre per l’accoglienza e l’organizzazione) è il far capire non solo l’importanza di un buon tappo ma che certe chiusure hanno bisogno di meno solforosa di altre all’imbottigliamento. Questo credo sia un passo basilare per portare avanti “in toto” la denominazione.