Concours des vins au féminin: rosè battuto dal rosso5 min read

Due settimane fa ho partecipato ad un evento organizzato dalla regione PAC, ( Provence – Alpes – Cote d’Azur ), che, per promuovere l’awarness (sic!) della produzione vinicola locale ha deciso di far degustare ad un gruppo di donne dei vini in una fascia di prezzo medio bassa e di creare un trofeo che hanno femminilmente chiamato: Trophée des Vins au feminin.

Viaggiare da Verona sino a Marsiglia dopo una giornata di lavoro non è cosa immediata, ma i francesi sono eccellenti motivatori, provare per credere.

La degustazione si è svolta nientedimeno che alla sede della regione, poco lontano dal vecchio porto, un luogo piuttosto suggestivo se non piove, ma siccome la sottoscritta e’ sempre fortunata, pioveva, quindi nessuna suggestione e neppure un ombrello!

Perché dovrebbe interessare un trofeo sessista? Per la polemica ovviamente, ma non solo, infatti i motivi sono molteplici.
Da un lato la composizione della giuria che, oltre ad essere composta da sole donne era costituita per il 90% da consumatrici:  per ogni tavolo corrispondente ad una giuria presenziavano una o due professioniste del settore, tra blogger, giornaliste ed enologhe e circa 7 consumatrici.

Ogni giuria doveva degustare 9 vini tra bianchi, tanti rosè e qualche rosso. Gli uomini presenti erano pochi e con dei graziosissimi papillons rosa bonbon.

La scheda su cui annotare le proprie impressioni era piuttosto semplificata, con 9 criteri di giudizio complessivi tra cui una maggioranza di criteri estetici per ciò che concerne il packaging.

Dapprima si dovevano registrare le note organolettiche, poi, veniva “spogliata” la bottiglia e le giurate erano invitate ad esprimere un giudizio puramente estetico sull’etichetta, le informazioni presenti e la forma della bottiglia ed infine si passava all’ultima pagina della scheda per valutare la coerenza tra contenuto e contenitore e il prezzo al quale avremmo acquistato la bottiglia e in quale occasione l’avremmo consumata.

I vini lasciavano un po’ a desiderare, posto che i bianchi di Provenza e i rosè non sono il mio forte, i rossi erano pochini (2) di cui uno puzzava da morire, il secondo era decisamente buono, con un naso davvero gradevole, fruttato e floreale, ma in bocca l’acidità a mio parere era un po’ troppo viva, tipico della Grenache in giovane età.

Contrariamente al cliché tutte le donne della giuria hanno decretato il rosso in questione davvero gradevole.
L’età del campione di consumatrici prescelte oscillava tra i 35 e i 60 anni, tutte provenienti da Marsiglia o dalla Provincia, e tutte o quasi consumatrici non esperte.

La cosa che mi ha sorpresa positivamente è’ stata la loro capacità di giudicare un vino buono da uno che non lo è , a prescindere dalla preparazione o conoscenza del prodotto. Spesso il loro vocabolario era piuttosto semplice, si limitava ad un vocabolario elementare, ma efficace e comprensibile, dove le parole più ricorrenti sono state: delicato, profumato, fruttato, floreale, potente, acido, non buono, amaro, pas terrible.

Facevano fatica a comprendere la differenza tra il vino prodotto da un viticoltore proprietario e quello di una cooperativa o un negoziante, e questa cosa, spesso molto ibrida sull’etichetta, le destabilizzava un po’.

Faceva loro piacere vedere il marchio europeo che certifica la provenienza delle uve da agricoltura biologica, ma non comprendevano che il marchio si limita alle uve, e non al “processo di fabbricazione”.
Preferivano quasi tutte le etichette e le bottiglie più classiche, con il nome del produttore e la denominazione ben chiari e magari i vitigni e i consigli di degustazione.

Inoltre, nessuna ha detto di preferire il rosè al rosso, quindi ripeto definire il vino rosè femminile è forse un errore: come definire il rosa amato dalle donne, per esempio io adoro il nero!
Una cosa che le ha disturbate e’ stato il mix di stili nel packaging, come per esempio una bottiglia classica borgognotta con il classico stemma di Gigondas ma con un’etichetta stilizzata in posizione obliqua. Tale dettaglio però  però non ha loro impedito a posteriori di apprezzare il vino che c’era dentro.

Durante la giornata c’è stata una diatriba su twitter, perché una blogger, ha trascorso la giornata a criticare l’iniziativa, definendola troppo girly e offensiva per il genere femminile. il titolo del post è molto significativo: “Vins au féminin : mes couilles, oui”, scusate il francesismo.

Inoltre ha criticato pesantemente la scelta di facilitare il vocabolario della scheda, scelta peraltro azzeccata viste poi le questioni sorte durante la degustazione di cui si discuteva insieme tipo: “cos’è l’acidita?” o “L’amertume?” Cosa vuol dire “secco”? Cosa significa “verdastro”? E “la persistenza”?

Perché per gli addetti ai lavori il linguaggio del vino e’ ormai diventato un modus vivendi, ma per chi il vino lo beve e lo acquista come qualunque altro bene di consumo non è’ così immediato. Certo, l’evento era un po’ cliché, ma non dobbiamo dimenticare che è’ stato organizzato in una città’ del sud, con abitudini e costumi molto diverse da quelle che si trovano a Parigi o Londra.

Queste donne erano davvero contente di trovarsi tra loro, senza “intrusi” a discutere di un prodotto che implicitamente è’ sempre stato considerato di appannaggio maschile. Poterne parlare, esprimere le loro opinioni e assistere all’assegnazione dei premi e’ stato per loro un’esperienza fuori dal comune e per me sociologicamente istruttivo.

La regione PAC ha avuto un’ottima idea, quello che sarebbe interessante è scoprire se  vi sarà un’analisi comparata dei dati raccolti e se li paragoneranno a quelli delle precedenti edizioni, anche solo a titolo informativo, per i produttori.

Certo, si tratta di una trovata di marketing, forse strumentalizzata e un po’ sessista, ma comunque l’importante è che se ne parli no?

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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