Borgogna. Le vigne della Cote d’Or, un’opera monumentale!16 min read

L’opera di Armando Castagno  sulla Borgogna è talmente monumentale che il nostro Guglielmo Bellelli non poteva non presentarla con una recensione altrettanto monumentale.

Dire che era un libro atteso non è un’iperbole, visto che ha avuto, a quanto pare, un ottimo successo nella pre-vendita. Qualcosa di simile ricordo sia avvenuto solo per i libri-atlante di Masnaghetti su Barolo e Barbaresco.

L’autore, Armando Castagno, è  ben conosciuto nell’ambiente, e la sua conoscenza e la sua passione per la Borgogna erano note. Di più: un libro del genere ancora mancava, e non solo sul mercato italiano: per quanto, sulla Borgogna, si sia scritto tantissimo in questi ultimi anni, non conosco altra opera altrettanto completa sul vigneto della  Côte-d’Or.  Tutte le sue  appellation, incluse le più piccole e meno conosciute, vi sono sviscerate con una ricchezza di dettaglio  davvero straordinaria.

Foto di Andrea Federici

Castagno è stato molto bravo a distillare una  conoscenza non comune del terroir borgognone per creare una sintesi brillante ed esaustiva.

Il primo termine, per quanto un po’ scontato,  che userei per descrivere questo libro, è “monumentale”. E non  potrebbe essere diversamente per un’opera  di quasi 800 pagine di grande formato. Il libro ha innanzitutto il grande pregio di presentare la Borgogna partendo dal suo vigneto piuttosto che dai vini dei produttori più riconosciuti. Chi cercasse in esso prima di tutto un elenco dei vini e dei produttori migliori o più ricercati  da scegliere in enoteca resterebbe deluso.

Quella di Castagno non è infatti una guida agli acquisti, ma alla conoscenza. E di questa, nel libro, ce n’é parecchia. Non c’è comune, né vigna, incluse quelle classificate come semplici Villages, e persino quelle che Castagno chiama, sia pure in senso niente affatto dispregiativo, “residuali”, in quanto a metà strada tra le Appellations communales e quelle regionali  (Côte de Nuits-Villages e Côte de Beaune-Villages), che sia trascurata. Di ognuna di esse il lettore troverà la precisa collocazione, un’accurata descrizione geomorfologica e le note caratteristiche di assaggio dei vini che provengono da esse.

Seguendo Castagno, che certo ne ha avvertito il fascino, il lettore potrà inoltre apprendere con meraviglia della paziente opera di costruzione, praticamente dal nulla (o comunque da molto poco) effettuata, nel corso dei secoli,  dai  monaci di Cluny e Cîteaux, del più straordinario patrimonio vitivinicolo dell’Europa medievale. Se la letteratura non è certo priva di riferimenti sugli stretti  rapporti tra la diffusione del Cristianesimo e il vino, in questa regione la mescolanza tra vino e religione non ha davvero uguali.

L’informazione è sempre dettagliata e puntuale,  anche dotta, per i numerosi riferimenti alla storia  di un territorio che certo non ne difetta, ma mai pesante e noiosa.   Ecco come Castagno,  con un ragionamento che sarebbe piaciuto a Sherlock Holmes,   spiega l’origine del nome Santenots,  noto climat di Meursault che ha, tra l’altro, la singolare peculiarità (unico di questo comune) di poter produrre indifferentemente vini bianchi, come Meursault premier cru, e rossi, ma con la denominazione Volnay: “Era di uso comune nel 1218, quando un frammento del vigneto attuale, non si sa quale, venne donato dall’Abbazia di Tart a quella di Cîteaux, insieme a tutti i possedimenti che l’ente aveva a Meursault”.

Foto Andrea Federici

Per quanto l’interpretazione corrente lo faccia risalire al nome di un antico proprietario, Castagno, riportando puntigliosamente tutti gli indizi raccolti a sostegno,  precisa: “A nostro avviso Santenots ha un’origine certa, ed è quella che discende dal latino classico sentes, diminuito col solito suffisso borgognone –ot con la “n” eufonica a fare da diaframma. La parola significa “i rovi”, e  riporta, al pari ad esempio del vicino vigneto “Roncerets” , all’epoca in cui queste terre erano invase di vegetazione. E’ appena il caso di notare come il più esteso dei lieux-dits del Santenots si chiami “Les Plures”, anticamente pélure, cioè i prati-per l’appunto-disboscati, bonificati dagli arbusti” (p. 522).”

Non per nulla, del resto (a p. 63) l’autore aveva definito “simile a un’indagine poliziesca” la ricerca  delle origini della toponomastica dei siti vitivinicoli borgognoni.

Il gusto, talvolta un po’ compiaciuto per il dettaglio, è sempre però temperato da  una punta di umorismo, come quando, a p. 434, parlando del più grande dei 42 (!) climat premier cru di Beaune, Les Grèves, scrive: “In basso, oltre al muretto a secco che delimita il vigneto a est, c’è un climat di 2,79 ettari a 222 metri di altitudine, completamente inerbito: difficile peraltro assaggiarne l’espressione di “terroir” in bottiglia, perché trattasi dello stadio comunale del rugby della città di Beaune”.

La struttura del volume, aggiornatissimo (leggendo il paragrafo del Clos de Tart si constata che vi è già riportata la nuova proprietà Pinault, che lo ha acquistato meno di un mese prima) e , magnificamente illustrato dalle foto di Andrea Federici  che meriterebbero un esame a parte, è presto descritta.

Si articola in quattro sezioni, delle quali le più corpose sono la seconda e la terza, che descrivono rispettivamente i cru della Côte de Nuits e quelli della Côte de Beaune.

A introdurle, un ricco capitolo  intitolato “Temi generali”, nel quale Castagno  ragguaglia più rapidamente il lettore  sulla storia, il terroir, la legislazione, con i suoi vari livelli di denominazione  a piramide, la geologia (un’impresa condensarla in poche pagine, senza scoraggiare troppo il lettore non specialista, evidentemente a disagio con le classificazioni del giurassico  e con la composizione dei suoli), la climatologia, le varietà (qui il compito  è più facile, visto che sono in pratica solo due, a parte le sopravvivenze di gamay e aligoté: forse però c’è ancora un po’ di  Pinot blanc?) , le pratiche viticole ed enologiche, la toponomastica, fondamentale per un territorio, che in pochi chilometri comprende ben 1247 lieu-dit diversi.

L’ultima parte, alla quale “saltiamo” per occuparci poi un po’ più estesamente della seconda e della terza, comprende una densa appendice  sulle annate della Côte d’Or, che inizia dal 1900 per arrivare ai giorni nostri, e una meno ampia, ma ugualmente essenziale, consistente nel glossario.

Nelle due parti maggiori, come si è detto, vengono minuziosamente descritti i territori dei diversi comuni e delle loro appellation, distribuiti tra le due grandi regioni della Côte d’Or: la Côte de Nuits e la Côte de Beaune.

Impossibile parlare in dettaglio di tutti, visto che Castagno dà conto non solo di tutti i Grand cru e i Premier cru della Cote d’Or, ma persino dei migliori lieu-dit Villages, solitamente trascurati in altre pubblicazioni: lasciamo perciò al lettore il piacere di scoprirli immergendosi in una lettura che li farà letteralmente entrare in contatto quasi visivo con essi.

Foto Andrea Federici

Ecco ad esempio  come Castagno introduce il capitolo dedicato a Vougeot e al suo Clos millenario: “Prossimo all’abitato di Vougeot, ecco l’ingresso tra colonne bianche neoclassiche diviso tra Jacques Prieur e Jean Raphet; poi il sobrio cancello in ferro battuto nero di Faiveley, quello più trionfale e alto di Grivot, riquadrato  da due colonne e sormontato da una scritta  e da una vezzosa decorazione a ricciolo. Procedendo verso Sud, si incontra la tozza barriera di pietra di Rebourseau e Château de la Tour, in mezzo alla quale si apre un portone di massiccio legno rosso a tutto sesto, con la foggia delle porte delle vecchie cantine; lo sormontano la scritta “Clos de Vougeot” a lettere onciali e la data: 1298. E ancora, scendendo verso Vosne-Romanée: una piccola grata arrugginita; una semplice apertura nel muro tra tarchiati pilastri; una larga inferriata verde petrolio…” (p. 205). Non vi sembra di esserci proprio davanti?

Un tema fondamentale, che attraversa tutta la monografia, e non potrebbe essere diversamente, visto il territorio trattato, è naturalmente quello della gerarchia dei climat  e, di conseguenza, dei vini che vi vengono prodotti.

Come è ovvio  il legame tra le due gerarchie è stretto, essendo peraltro validato da testimonianze le cui origini affondano letteralmente nei secoli, ma non sempre scontato. Non sempre, infatti, i vini della Côte d’Or sono nella stessa misura “trasparenti”, ossia riflettono in modo preciso, nella qualità dei prodotti finali, la differenza delle loro origini.

Le diverse annate,   l’età delle vigne, gli stili di vinificazione dei vigneron intervengono in modo spesso decisivo dando luogo a vini sorprendenti (in senso positivo, ma talvolta anche negativo) rispetto alla nobiltà del climat da cui provengono, definita in rapporto alle potenzialità della vigna, più che al valore espresso in singole annate eccezionali.

La superiorità di un climat deriva da molti fattori, non soltanto fisici (la posizione, l’esposizione,l’altitudine, la pendenza, le caratteristiche dei suoli, il microclima…), ma quasi sempre anche sociali, dipendendo strettamente dal lavoro umano solidificatosi nel tempo. Armando li descrive con precisione.

Il primo, e il più immediato, è nella posizione occupata dalle vigne nella fascia collinare: i grandi cru non sono mai né troppo in alto, né troppo in basso, ma a mi-pente, ad altezze comprese tra i 250 e i 300 metri. Più sopra, pendenze proibitive, la sottigliezza dei suoli, nei quali sono frequenti affioramenti di roccia madre, temperature troppo basse, la carenza d’acqua, impediscono quella completezza, come la chiama Castagno, che caratterizza i più grandi vini di Borgogna. Più in basso, l’eccessivo calore, i ristagni di umidità, gli strati troppo ricchi di argille, ugualmente rendono i vini poco fini e talvolta persino rustici.

Essenziale, poi, in una terra che è un vero millefoglie geologico, nella quale punti  tra loro distanti solo qualche decina di metri possono essere  incredibilmente diversi l’uno dall’altro, è la natura dei suoli.  La trattazione di Castagno a questo riguardo è davvero esaustiva e molto precisa. A volte sembra che abbia personalmente effettuato delle analisi di laboratorio su tutte le vigne delle quali parla.

Si prenda ad es. (p. 591) quanto scrive a proposito del Clos des Perrières, mitico climat di Meursault di meno di un’ettaro, dal quale Grivot ricava poco meno di 6.000 bottiglie degne di un grand cru: “La composizione del terreno è sconcertante: annovera un 46% di argilla, un 30% di limo, un 7% scarso di sabbie fini e un 17% di sabbie più grossolane; assai alta vi è la percentuale di magnesio, mentre il calcare attivo è solo del 4.5%. Lo sconcerto  nasce dalla misurazione del tenore medio di argilla del resto del Perrières  esterno al muro, che è del 30.1%…”. E’ come se le mura di contenimento, spiega Castagno, avessero “mummificato” il suolo del Clos, impedendo il dilavamento degli strati superficiali.

Ad essere importanti, però, non sono soltanto le caratteristiche “fisiche” (posizione, altitudine, geologia…) dei vigneti, che naturalmente   costituiscono un asse fondamentale per la definizione dei diversi terroir e della loro differente vocazione qualitativa,  ma anche la loro capacità di esprimere e “raccontare” la storia di questa straordinaria regione e del suo vigneto.

E’ certo quest’ultima all’origine del fascino degli antichi Clos, racchiusi all’interno di mura plurisecolari, ancor più se comprendenti edifici della stessa epoca. Di questo è ben consapevole Armando che certo non è immune al loro fascino. Si veda ad esempio la sua presentazione delle migliori parcelle Villages di Vosne-Romanée,  un comune, nel quale, come ebbe a dire l’Abbé de Courtepée, che di vino se ne intendeva parecchio, “nessun vino è ordinario”. Diversamente dalla vicina Flagey-Echezeaux, il cui centro storico-caso unico nella Côte de Nuits- è completamente segregato dalle sue stesse vigne e dalla grande dorsale vitata della Côte, Vosne-Romanée è totalmente racchiusa tra i vigneti.

Dopo aver giustamente sottolineato le differenze tra le parcelle poste a ovest, sulla parte più alta della fascia collinare che sovrasta il paese, confinanti con i Premier e persino Grand cru, come Le Richebourg,  La Tâche e La Grande Rue,  e quelle situate invece dalla parte opposta (a destra  del borgo abitato) a ridosso della Route per Dijon, e ancora, tra le più vicine a Nuits-Saint-Georges e quelle che invece “guardano” ai territori di Flagey-Échezeaux e Vougeot, Castagno si sofferma  a lungo proprio sulle vigne dei tre clos , peraltro bellissime, che sono in pratica incastonate tra le case del villaggio di Vosne-Romanée: il Clos Goillotte, monopole di Prieuré-Roch , il Clos du Château, monopole della Famiglia del Comte Liger-Belair, e il Clos Frantin, ribattezzato recentemente Clos d’Eugénie dalla nuova proprietà.

Ma il caso più emblematico della forza della storia e dei suoi miti è rappresentato certamente dal Clos de Vougeot, vera e propria icona della vitivinicoltura borgognona , su cui è forse utile  soffermarsi un po’ più a lungo. Nella maggior parte dei casi, soprattutto quelli più estesi, definire l’identità di un climat a partire dalle sole caratteristiche dei suoli, è assai più complesso che in quello del Clos de la Perrière.

Con i suoi quasi 51 ettari, che ne fanno il più esteso dei grand cru della Côte de Nuits, il Clos de Vougeot ha dimensioni tali da rendere impossibile definirne una  identità relativamente omogenea. Può quindi sorprendere che esso sia considerato come un climat “unico”, senza sotto-articolazioni interne tra loro differenziate. Esso appare piuttosto il risultato di lento e graduale processo di costruzione, quasi dal nulla (si trattava infatti per lo più di terre incolte oppure prima utilizzate per altre culture) da parte dei monaci di Cîteaux, ma sarebbe impossibile, al di là del semplice  fatto di essere rinchiuso nell’imponente muro di cinta, riconoscere al Clos una effettiva unità omogenea. Non a caso perciò, ancora oggi sopravvive una miriade di nomi di singoli lieu-dit diversi, risalenti al Medioevo, e  ricordati anche da Lavalle nel suo trattato del 1855.

Se si tratti soltanto di sopravvivenze onomastiche  oppure sia possibile collegare loro differenti identità distinguibili per quanto riguarda la natura del loro suolo e le caratteristiche  dei loro vini è  questione assai più complessa, e forse è impossibile rispondere, data l’estrema frammentazione e dispersione delle parcelle dei suoi quasi 80 (Castagno dice, e c’è da credergli, che oggi sono 74) “exploitants”.

Pochissimi infatti sono i vini “puri” provenienti da un singolo lieu-dit, mentre la grande maggioranza di essi è prodotta a partire dal contributo di particelle che si trovano in zone molto diverse e distanti tra loro.  L’autore distingue  classicamente le zone più alte  del Clos, che “da sempre” sono accreditate del maggiore potenziale qualitativo, e dalle quali, non  certo casualmente, giungono le rare rivendicazioni in etichetta come lieu-dit autonomi (fondamentalmente i lieu-dit Musigni e Grand Maupertuis), da altre due fasce parallele, omogenee per altitudine, di cui quella  inferiore giunge a bordeggiare la RN per Dijon, dove i suoli, più bassi e profondi, e più ricchi di argilla, non permettono ai vini di raggiungere pari finezza.

Di ciascuna viene descritta con precisione di dettaglio la differente natura geologica e le caratteristiche dei suoli, non trascurando di citare la Combe  d’Orveaux e l’influenza da essa esercitata (soprattutto sul lato nord occidentale) sul microclima del Clos. Attenzione però: le linee altimetriche che le delimitano sono molto sinuose e di forma irregolare, sicché  l’individuazione delle suddette fasce non è sempre priva di inganni. La fascia più alta (sopra la linea dei 260 m.), la più ristretta,  comprende infatti  fondamentalmente i lieu-dit Plante Chamel e Plante l’Abbé (dove si trovano parcelle del Domaine Hudelot-Noellat, dello Château de la Tour, e dei Domaines Drouhin-Larroze, Bouchard Père et Fils e Hubert Ruy), ma solo marginalmente Musigni (dov’é la vigna di  Gros Frère et Soeur). Quanto al Grand e Petit Maupertui si trovano, per una porzione relativamente ridotta, nella fascia immediatamente al di sotto, tra i 255 e i 260 metri, insieme con Musigni e Garenne (immediatamente adiacente al castello, nella quale è anche la parcella più alta del Domaine Leroy nel Clos de Vougeot), circa metà di Chiours, e, quasi per intero, Marei-Haut.

Le porzioni maggiori dei due Mapupertuis  sono invece ancora più in basso, nella linea compresa tra 255 e 250 metri, insieme con Mentiottes Hautes, la parte restante di Chiours, e un’ ampia sezione del Marei Bas e del lieu-dit Dix Journaux.

Si noti che, a quanto si sa, sia Garenne che Musigni, oggi ritenuti facenti parte della porzione migliore del Clos, erano fuori dalla vigna storica del Clos quando esso era ancora posseduto dai monaci, il cosiddetto Grand Enclos, da cui furono invece inglobati solo in epoca più recente (tra il XVIII e il XIX secolo).

A Garenne, chiamata allora anche le Verger, non c’erano viti, ma alberi da frutto, e il Musigni era conosciuto come la Muscadière, perché c’era un vigneto specializzato per la coltivazione del moscato.

A quanto risulta da una mappa del 1717, esse erano, insieme con i fabbricati ivi esistenti, comprese all’interno di  una seconda cinta di  mura comprendente delle  torri circolari difensive, poi scomparse, a costituire ciò che Chauvin chiama Il “piccolo clos”.

Non trascurando di considerare che, nella definizione del risultato finale, entrano in gioco  molti altri fattori, come l’età dei vigneti, il carattere  secco o umido dell’annata e le differenze degli stili di vinificazione adottati, bisogna aggiungere che  la sola altitudine non rende completamente conto delle differenze qualitative delle vigne del Clos , ma  appare utile distinguere a questo proposito  anche  la parte settentrionale e quella meridionale  delle due fasce meno alte:  quella  centrale, posta immediatamente  sotto al Castello, e quella più bassa, delimitata dalla Route Nationale per Digione. La sezione  settentrionale, meno argillosa e più filtrante, appare senza dubbio  favorita rispetto a quella meridionale. Secondo Patrick Essa a fare da spartiacque è la proprietà Jadot.

 

Un altro fattore non insignificante, come sottolinea  Norman,  è che, al di là dell’altitudine e della collocazione  sull’asse nord-sud, la superficie del Clos è  percorsa da diverse rugosità irregolari, che modificano sia l’inclinazione dei raggi solari, sia la distribuzione dell’umidità, a diversificare e complicare ulteriormente il quadro idrogeologico e climatico delle diverse parcelle.  Ad esempio al centro del Quartier du Marei Bas, nel quale si trova la Vieille vigne da cui lo Château de la Tour ricava la sua cuvée di maggior prestigio, c’è un piccolo rialzo arrotondato  conosciuto come “le Rognon”.

Il suolo può inoltre variare sensibilmente anche all’interno  dello stesso lieu-dit, come nel Quatorze Journées, che si trova nella parte più bassa del Clos, in prossimità della RN, ma  il cui suolo è, in alcune zone, meno profondo e più  pietroso.

Insomma, non si può davvero dare  torto a Armando quando parla dell’inafferrabilità (p. 212) dei vini del Clos de Vougeot, praticamente uno diverso dall’altro. Ecco perché  la definizione del climat Clos de Vougeot non ha senso nei termini in cui può essere applicato ad altri grands crus della Côte de Nuits,  come lo  Chambertin o il Clos de Bèze, e si giustifica solo con l’esigenza di preservare nel nome l’ identità storica e il prestigio millenario di questa straordinaria proprietà vitivinicola, creata nel corso di quasi due secoli e mezzo dai monaci con una lungimiranza che oggi definiremmo genialmente imprenditoriale.

In definitiva questo libro di rappresenta qualcosa di davvero unico nel panorama bibliografico sulla Borgogna, che nessun  appassionato dovrebbe lasciarsi  sfuggire, anche a costo di rinunciare, per acquistarlo, a una buona bottiglia di Corton-Charlemagne.

Ne seguiranno altri sullo Chablisien e sulle regioni più meridionali della Borgogna, la Côte Chalonnaise e il Maçonnais?

 

Armando Castagno: “ Borgogna. Le vigne della Cote d’Or”, Tre Bit Edizioni, 2017,  Prefazione Michel Bettane. Introduzione Fabio Rizzari.

 

Per acquistare online il libro  (cosa che, online o in libreria, vi consigliamo caldamente):

http://www.levignedellacotedor.com/

Guglielmo Bellelli

Nella mia prima vita (fino a pochi anni fa) sono stato professore universitario di Psicologia. Va da sé: il vino mi è sempre piaciuto, e i viaggi fatti per motivi di studio e lavoro mi hanno messo in contatto anche con mondi enologici diversi. Ora, nella mia seconda vita (mi augurerei altrettanto lunga) scrivo di vino per condividere le mie esperienze con chi ha la mia stessa passione. Confesso che il piacere sensoriale (pur grande) che provo bevendo una grande bottiglia è enormemente amplificato dalla conoscenza della storia (magari anche una leggenda) che ne spiega le origini.


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